Le proposte di politica economica in Italia dal 2001 al 2008
C’è un modo infallibile per affrontare con probabilità di successo la crisi economica e finanziaria del 2008-2009, la più grave dell’ultimo secolo, ed è evitare gli errori del passato.
Per questo motivo Bruno Costi ha dedicato 350 pagine del libro “Alla ricerca dell’economia perduta” (Edito da Unicredit-Economia Italiana) a raccontare, analizzare e commentare i provvedimenti di politica economica varati dai governi italiani dell’ultimo decennio, per cercare ciò che ha funzionato affinché possa essere proseguito, e ciò che non ha funzionato affinché non lo si ripeta.
Il testo di Costi va sul concreto e prende in esame non gli annunci di politica economica, ma le leggi effettivamente approvate dai governi e dai Parlamenti nelle due legislature del primo decennio dell’euro: il governo Berlusconi II, durato dal 2001 al 2006, ed il governo Prodi, vita più breve dal 2002 al 2008.
Ebbene, dice Costi, benché i due governi abbiamo fatto ciò che potevano, ed il primo più del secondo, benché le abbiano provate tutte per rilanciare la crescita dell’economia, benché il paese abbia fruito in questo decennio di ciò che era sempre stato reclamato, cioè stabilità politica, controllo della spesa, riforme strutturali, nonostante tutto questo – dice Costi – la crescita italiana è stata la più bassa dell’Occidente industrializzato.
Costi, che ha elaborato ed analizzato i dati dal 1995 al 2008, nota con rammarico che il Pilo pro-capite italiano a parità di potere d’acquisto è aumentato un quinto meno della media dei 15 maggiori Paesi industrializzati, ovvero del 50% contro il 70,1% con una progressione negativa sorprendente: cresceva poco meno della media tra il 1995 e il 2001 (-3,9%) penultimo dopo la Germania; è crollato a – 16,9% meno della media, dal 2001 al 2008, i primi anni dell’euro, penultimo dopo il Portogallo.
Perché?
Costi individua due tipi di cause: le azioni mancate, che dipendono da responsabilità italiane, dei governanti e dei governati; e le azioni subite, che dipendono dalle regole europee del Patto di stabilità, che Costi chiama Euro-comandamenti o peggio Euro-dannazioni.
Le azioni mancate riguardano:
Poca concorrenza e mercati imperfetti: l’autore lamenta mercati protetti barriere all’ingresso e scarsa o inesistente concorrenza in molti settori dell’economia ; fattori all’origine della bassa produttività italiana, 6 volte inferiore alla media Europea a confronto con quella tedesca ,12 volte superiore alla media europea. Costi cita dati Ocse per ricordare che la situazione italiana va migliorando, ma l’indicatore di rigidità indica che Roma ha ancora 7 anni di ritardo rispetto a Londra, 6 verso Washington, 5 verso Dublino e 3 verso Berlino.
Scarsa centralità dell’impresa: il declino dell’impresa italiana nel primo decennio dell’Euro è nelle cifre. La presenza dei prodotti made in Italy nel mondo si è dimezzata in un decennio. La causa è nei bassi investimenti delle imprese, nella sbornia finanziaria della grande industria che in taluni casi ha preferito investire in azioni e finanza piuttosto che in capannoni e fabbriche, circostanze verificatesi proprio nel decennio in cui le privatizzazioni smantellavano l’industria di Stato e il “pensionamento” dell’Agenzia per il Mezzogiorno arrestava l’intervento straordinario nel Sud. Costi, pur riconoscendo che il ruolo positivo delle Partecipazioni Statali si è arrestato alla prima fase (1956-76) avverte che quanto prima gli imprenditori privati sapranno agire per colmare il vuoto lasciato dal ritiro dell’intervento pubblico, tanto più riusciranno a respingere la rinascente voglia di partecipazioni statali che la politica , viceversa, avrebbe titolo a reclamare.
La poltica e le condizioni per lo sviluppo: la capacità dell’economia di crescere e delle imprese di investire discende però anche da una Pubblica amministrazione efficiente, da infrastrutture necessarie, da un costo dell’energia competitivo, da una tassazione equa, da una giustizia celere, un’istruzione di qualità, da una legislazione semplice, da un arretramento della criminalità, da un sindacato moderno, cioè da un contesto ambientale del Paese che riconosca la centralità dell’impresa come strumento per produrre ricchezza e la metta in condizione di operare al pari delle imprese estere. E dopo aver ricordato che gli ultimi dati Ocse indicano che in Italia nel 2009, ogni 100 euro di profitti lo Stato e la fiscalità ne prelevano 73 contro una media internazionale del 46, sollecita la politica a rimuovere gli ostacoli allo sviluppo,invitando soprattutto l’opposizione, di qualunque colore sia a collaborare con i governi perché nessuno potrà mai governare sulle macerie di un Paese.
Euro-comandamenti ed Euro-trappole: E’ il capitolo forse più provocatorio del libro di Costi ma anche il più coraggioso .
Costi contesta quella parte di Eurocomandamenti contenuti nel Patto di stabilità europeo che obbliga l’Italia a spingere la crescita solo di pari passo con il risanamento della finanza pubblica. Infatti, non tutti i paesi europei hanno lo stesso livello di infrastrutture ; l’Italia ha un gap notevole con Francia Germania e Gran Bretagna, quanto a ferrovie strade,telecomunicazioni, che costituiscono il presupposto per la crescita delle imprese. Il divieto di usare politiche keynesiane, con investimenti in deficit imposto dall’alto debito pubblico italiano, è una regola inaccettabile in quanto cristallizza le posizioni competitive iniziali dei paesi europei, mentre i paesi più arretrati – come l’Italia – dovrebbero poter investire di più per raggiungere il livello dei paesi più avanzati.
Secondo Costi la crisi del 2008-2009 accentua il divario perchè consente a Paesi più ricchi di investire in deficit e rafforzare le proprie condizioni competitive, laddove all’Italia è impedito. Per farlo, in base al ritmo di risanamento degli Euro-comandamenti degli ultimi dieci anni, l’Italia dovrebbe attenderne altri 30 per poter investire di più, ma nel frattempo che ne sarebbe dell’Italia, delle sue industrie dei suoi occupati?
Dall’Euro-dannazione all’Euro-crescita
Ecco perché secondo Costi occorre cambiare le regole europee. Nessun Paese – dice – può essere condannato, consenziente, ad assistere passivamente al proprio declino, all’impoverimento della propria economia rinunciando a priori all’unica leva che può riscattarlo, la politica economica. Se nel nuovo contesto della crisi del 2008, i vincoli europei del Patto di stabilità, dovessero davvero costringere un Paese membro a rinunciare al proprio sviluppo, a rassegnarsi al declino economico, alla regressione sociale e dunque all’infelicità del suo popolo, forse avrebbero qualcosa di sbagliato che occorre correggere. Se dovessero costringere il Paese a competere con le mani legate, non sarebbero vincoli portatori di sana competizione. Se obbligassero di fatto a consegnare in prospettiva interi settori industriali, mercati, ad imprese di Paesi con maggiore capacità di spesa pubblica dovuta alla floridezza dei loro bilanci pubblici, forse non sarebbero vincoli, ma trappole.
Costi sollecita la politica a cogliere l’opportunità della crisi finanziaria internazionale e della rimeditazione in corso degli errori commessi, per gli errori di un Patto di Stabilità inadeguato all’Italia. Accantonare gli euro-comandamenti divenuti euro-dannazioni e rilanciare l’Euro-crescita e l’Euro-sviluppo.
Costi è convinto che i detentori esteri del debito pubblico italiano si sentirebbero molto più garantiti da un Paese che cresce e per questa via consolidi la sua solvibilità piuttosto che da un Paese che non cresce. E dopo aver rassicurato gli eurofanatici che la mole del debito pubblico italiano non consente azzardi né avventurismi al di fuori della cornice europea e dell’euro, conclude con una provocazione: “All’interno della cornice europea c’è molto spazio perché i governi battano i pugni, facciano sentire le ragioni dei loro popoli, se necessario protestino, minaccino, reagiscano, in sostanza utilizzino tutte le armi che la politica sa mettere in campo quando ha idee chiare da raggiungere e merce di scambio per negoziare. Del resto, il debito pubblico è certamente un problema nostro, ma se è il più grande d’Europa, non è anche un problema loro?”