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2011, l’Odissea dell’euro

Fuggire dall’euro non si può. La legge non lo prevede e soprattutto non c’è, neanche nelle segrete stanze, una qualsiasi ipotesi di procedura. Se n’era discusso, ai tempi in cui si cominciava a costruirlo, di preparare un piano da tenere segreto, che prevedesse come fare a tornare indietro dall’euro se la situazione l’avesse reso necessario. Ma vinsero gli ottimisti, la febbre del sogno che si andava a realizzare prevalse sul realismo di alcuni. Non è il caso di rammaricarsene troppo, anche se una procedura in qualche cassetto esistesse la forza delle cose, se si dovesse arrivare a quel punto, la travolgerebbe. Proviamo a immaginare. Se per costruire tecnicamente l’euro ci sono voluti più o meno cinque anni, per disfarlo quanti ce ne vorrebbero? Il tempo necessario non è quello di stampare le banconote, ma di ricostruire sistemi monetari, sistemi di pagamento,creare norme per la transizione, regolare diritti e doveri dei titolari e degli emittenti di tutti i titoli in circolazione denominati in euro, e via elencando. Dal momento stesso in cui questo complesso procedimento dovesse cominciare si entrerebbe in una situazione di caos totale, con fuga di capitali verso altre valute fuori dall’area o verso beni nei paesi forti dell’area, ovvero verso la Germania. L’economia per un periodo di mesi o più probabilmente di qualche anno, sarebbe nel più assoluto disordine, le banche sarebbero immobilizzate nella loro attività, scoraggiate a prendere impegni in una valuta destinata a scomparire e senza conoscere un credibile tasso di cambio con quella destinata a sostituirla. Sarebbe una tragedia.
Ma, facendo fantafinanza, saltiamola pure questa tragica e ineludibile fase. Come sarebbe l’Italia senza euro? Ci sarebbe chi festeggia. Si può intuire il saltare dei tappi di spumante (non di champagne che non potremo più permetterci) delle aziende esportatrici, che immagineranno di fare affari d’oro con i costi denominati nella vecchia liretta e i prezzi in valute ben più forti. Incaute e frettolose: il cambio che si rafforzerebbe drammaticamente sarebbe quello con il marco, ma ormai più di un terzo del nostro export va verso i paesi emergenti, e belle fette vanno verso l’area del dollaro e della sterlina, che in una fase che sarà dominata dalle svalutazioni competitive si daranno un bel da fare.
Ma oltre alla partita difficile dell’export, ce ne sarebbero altre assai più complesse. Il costo delle importazioni aumenterebbe, e l’Italia dipende dall’estero non solo per le materie prime energetiche ma per l’alta tecnologia, dai cellulari ai computer, e buona parte del farmaceutico. Ci potremmo permettere, noi cittadini consumatori, assai meno cose.
Le banche italiane entrerebbero in una situazione di drammatica difficoltà, con il rischio paese che peserebbe sul loro costo del capitale e della raccolta, riversandosi sul costo del denaro. Indebitarsi per imprese e famiglie diventerebbe assai più costoso. Addio mutui, addio investimenti. Ma il dramma dei drammi sarebbe la sostenibilità del debito pubblico. L’euro ci consente di risparmiare in interessi sul debito decine di miliardi l’anno, forse un centinaio, che con il ritorno della lira dovremmo trovare nelle nostre tasche.
In realtà la fine dell’euro non farebbe bene a nessuno. Neanche alla Germania, che si troverebbe con un marco fortissimo che taglierebbe drasticamente le sue esportazioni e il suo surplus commerciale, mentre probabilmente si troverebbe a dover affrontare una crescita dei valori dei titoli e degli immobili in una nuova bolla che potrebbe condannarla ad un esito ‘giapponese’, ovvero almeno un decennio di bassa o zero crescita accompagnata dalla deflazione.
Ma se senza euro staremmo tutti peggio, perché sembra che stiamo facendo di tutto per distruggerlo? Da parte dei deboli la ragione è che è assai più facile recuperare competitività svalutando del 30% il cambio che riducendo del 30% gli stipendi. Da parte dei forti, ovvero della Germania, perché è difficile convincere un’opinione pubblica che si sente virtuosa a sostenere il peso di chi è meno responsabile.
Sono in realtà sensazioni più di pancia che di testa. Il problema però è che, a parte le percezioni, Eurolandia si è infilata in una situazione assai difficile. Siamo finiti in una specie di labirinto dal quale è assai difficile uscire. Ci troviamo in una situazione in cui il livello dei debiti e dei deficit pubblici, la fragilità delle banche, la pressione dei mercati e la bassa crescita economica si sono inestricabilmente intrecciate e nessuno sembra avere la ricetta per affrontare ciascuno dei problemi senza rendere più difficili da risolvere tutti gli altri. Ci vorrebbe tempo, ma il tempo si compra con il denaro e il denaro non c’è più.
Una soluzione che sembrava poter tenere insieme il sistema l’aveva trovata la Bce: una riedizione allargata della Legge Sindona, così soprannominata perché creata per salvare la Banca Privata Finanziaria, creatura del bancarottiere siciliano. Quella legge prevedeva che la Banca d’Italia finanziasse all’1% l’istituto in difficoltà per un ammontare pari ai titoli di stato che quell’istituto depositava a garanzia. Un meccanismo semplice: le banche prendevano denaro all’1% e lo investivano in titoli di stato che rendevano molto di più, con il denaro che incassavano grazie al differenziale tra i due tassi rimettevano a posto i bilanci. In Italia è stata applicata con discreto successo un buon numero di volte. La Bce fa la stessa cosa, presta denaro all’1% che le banche investono in titoli pubblici che rendono di più. Le banche ci guadagnano e possono rimettere con il tempo in ordine i loro bilanci, mentre gli stati hanno qualcuno che compra i loro titoli. La differenza tra la versione italiana e quella europea, è duplice: la prima è che in Italia andava in crisi una banca per volta, mentre in eurolandia sono molte tutte insieme; la seconda, ancora più grave, è che ai tempi i titoli di stato erano considerati sicuri mentre adesso questa sicurezza molti paesi emittenti non la danno più. Ed è stato questo secondo fattore a mettere in crisi il marchingegno messo in piedi a Francoforte che, purtroppo, è però l’unico che avevamo a disposizione.
Quando la mala gestione della crisi greca ha messo in crisi la soluzione Bce, l’Europa ha tentato una nuova strada, la European Financial Stability Facility (Efsf), quel fondo da complessivi 700 miliardi da utilizzare per aiutare i paesi in difficoltà. Ebbene si scopre ora che quel fondo ha basi legali fragili (a Corte Costituzionale tedesca lo sta esaminando). E anche basi finanziarie fragili, perché il suo punto di forza è la tripla A delle società di rating per i titoli emessi dal veicolo guarda caso lussemburghese creato appositamente per questo scopo, ma si comincia a dire che quella tripla A nel caso che la Efsf attingesse in misura troppo significativa alle sue risorse sarebbe a rischio. Insomma si comincia a temere che potrebbero non esserci i soldi per aiutare, dopo la Grecia e l’Irlanda, anche il Portogallo.
C’è infine la questione delle questioni: è giusto che siano i cittadini a pagare tutto attraverso le tasse, o non anche gli investitori che hanno acquistato i titoli dei paesi più deboli proprio perché rendevano di più? Il problema l’ha posto la Germania, sbagliando nella forma se non nella sostanza. La sostanza, condivisibile, è che chi investe il suo denaro ottiene un rendimento ma si assume un rischio, quindi se quel rischio si concretizza è giusto che paghi. La forma è invece assolutamente deleteria, perché una modifica delle regole in questa chiave la si costruisce in silenzio e la si annuncia nel momento in cui diviene operativa, altrimenti il suo primo effetto è spaventare i mercati e accentuare i rischi. E’ quello che è successo.
Il problema, che fino ad oggi è stato politicofinanziario, si sta rapidamente trasformando e diventando politicosociale. La drastica e rapida riduzione dei deficit pubblici che i mercati stanno imponendo all’Europa comporta una riduzione del denaro in tasca alle famiglie e dei servizi erogati alle famiglie e alle imprese, in sostanza una riduzione del tenore di vita. Con meno soldi e minori certezze i cittadini possono consumare meno, di conseguenza le imprese investono meno, non assumono, spesso licenziano. La crescita rallenta ulteriormente, rendendo più difficile mettere in ordine i conti pubblici e rassicurare i mercati, che quindi chiedono ulteriori tagli in una spirale che potrebbe diventare pericolosa.
Parlare a questo punto di una ristrutturazione dei debiti sovrani di alcuni paesi dell’area euro non è più tabù. I report degli analisti danno già per probabile quelli della Grecia e dell’Irlanda nel 2013, il Portogallo si vedrà, la Spagna, considerata per le sue dimensioni il vero problema, è anch’essa a rischio. Allungare le scadenze e bloccare i tassi potrebbe essere un esito meno tragico di quanto oggi si teme, se accompagnata da una sospensione del ‘mark to market’ (ovvero dell’obbligo di riportare in bilancio i titoli posseduti al valore di mercato e non quello alla scadenza) non inciderebbe sul patrimonio delle banche che hanno i titoli in portafoglio (la cui svalutazione le metterebbe in grave difficoltà), mentre le risorse della Efsf potrebbero essere utilizzate per coprire i disavanzi nei tre<->cinque anni successivi, che i paesi dovrebbero utilizzare per azzerarli.
Ci vorrebbero coesione politica, rapidità, capacità decisionale, credibilità. Ma i vertici europei ce l’anno?

Fonte: Affari e Finanza del 29 novembre 2010

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