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Tutti i nodi da sciogliere di un sindacato da “pensionati”

Il Senato ha iniziato a esaminare il disegno di legge per la conversione del Decreto Legge 138 del 13 agosto 2011 che riguarda la manovra di politica economica per riportare l’Italia sul percorso sia della stabilizzazione finanziaria. sia della crescita inclusiva. Giuliano Amato ha detto che occorre fare una svolta molta più profonda di quella dell’estate-autunno 1992. Gli hanno fatto eco nel Meeting in corso in questi giorni a Rimini imprenditori ed economisti.
Occorre chiedersi, in questo quadro, che fine ha fatto il sindacato? La Cgil ha proclamato uno sciopero generale (ulteriore perdita di produttività e di competitività per il sistema italiano), mentre gli altri sono parsi essenzialmente ancorati al coretto a cappella “Non cambiamo le pensioni”, senza riflettere che in tal modo si penalizzano le nuove generazioni e il sindacato è destinato a diventare una o più organizzazioni di pensionati.
Il ruolo del sindacato nella definizione e attuazione della strategia è essenziale perché a essa dobbiamo partecipare tutti. Ci sono in particolare due nodi da sciogliere con il contributo attivo del sindacato. Il primo è stato chiaramente individuato, circa 25 anni fa, dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil), l’unica agenzia internazionale nei cui organi di governo siedono i rappresentanti delle confederazioni sindacali mondiali.
Ci sono due vaste categorie di “patti per la stabilizzazione e lo sviluppo”: quelli “difensivi” – diretti a tutelare l’esistente (a volte con un occhio rivolto al passato) – e quelli “aggressivi” – diretti, invece, a facilitare l’adattamento a un contesto in rapida evoluzione e, se possibile, a far da guida al cambiamento. In Italia, il ciampiano Patto di San Tommaso del 1993 e il prodiano Accordo di Natale del 1998 sono esempi della prima categoria, mentre il Patto di San Valentino del 1984 e il Protocollo sul Welfare del 2007 contengono cenni della seconda. Una strategia “aggressiva” è quella invocata dal Presidente Napolitano perché si guardi al futuro delle giovani generazioni.
Il secondo luogo riguarda la politica industriale: siamo il maggior Paese europeo, dopo la Repubblica Federale Tedesca in termini di produzione industriale e, in aggiunta, non si può certo concepire che agricoltura e servizi assorbano quota crescente di forza lavoro e, al tempo stesso, crescano produttività e competitività.
In Italia co-esistono due modelli, distinti tra loro e per certi aspetti contrapposti. Il primo è quello importato negli anni Ottanta dalle Isole nipponiche in molti paesi europei (anche in Francia e in Germania): in giapponese esiste un termine kaizen, evoluzione graduale e progressiva ma all’insegna della tradizione aziendale e della continuità.
Le medie imprese seguono, invece, un altro modello – ben individuato dall’economista inglese D.H. Pyle nei “distretti” dell’Italia centrale e della costiera adriatica e ionica: mutamento tramite discontinuità in stile anglosassone – ossia cambiamenti secchi caratterizzati da segnali forti a tutti gli interessati (dipendenti in primo luogo). Il sindacato ha un compito cruciale nel contribuire a definire il mix appropriato tra questi due modelli.
Chiaramente un’intesa su come sciogliere il primo nodo è la premessa per risolvere il secondo e porre le basi per delineare i contenuti di un eventuale “patto”. Il passato non può cambiare, ma non può neanche tornare. Un “patto” difensivo è votato al fallimento, come lo sono stati il Patto di San Tommaso del 1993 e l’Accordo di Natale del 1998. Occorre oggi un “patto” molto più aggressivo di quello, limitato peraltro al welfare, di circa cinque anni fa: un “patto” che promuova meritocrazia, mobilità sociale, disponibilità al mutamento di mansioni e di sede di lavoro, con l’obiettivo di portare l’industria italiana in posizione di leadership non di traino.

Fonte: Il Sussidiario del 24 agosto 2011

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