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Sentenza Parmalat, i conti non tornano

Condanna Tanzi: una magra consolazione per le vittime
Non c’è bisogno di essere forcaioli per essere soddisfatti della sentenza sul crack Parmalat emessa nei giorni scorsi dal Tribunale di Parma. Tuttavia, essa non è esemplare, come qualcuno ha detto evidentemente intossicato dalla troppa carcerazione preventiva e dallo scarso numero di giudizi e da quello addirittura infinitesimale di sentenze interamente eseguite. No, i 18 anni di carcere inflitti a Calisto Tanzi e le condanne per altri 13 suoi sodali sono solo un insperato – per la obbrobriosa prassi giudiziaria italiana – ma nello stesso tardivo e parziale atto di giustizia a fronte ad una truffa che con i suoi 14 miliardi di euro sta in cima alla classifica europea e ai primissimi posti di quella mondiale delle grandi bancarotte. Insperata, perché per come si era messa la vicenda – con Tanzi del tutto defilato, che senza alcuna modestia mediatica ha potuto continuare a vivere come prima, persino in compagnia dei suoi quadri, mentre nel mirino erano finite le banche italiane,che avranno avuto anche le loro responsabilità ma certo minori di quelle dell’ex padrone della Parmalat e degli istituti di credito stranieri – si pensava un po’ tutti, Tanzi in testa, ad una sentenza meno “forte”. Certo, nulla in confronto ai 150 anni comminati negli Usa a Bernard Madoff, o alle pene esemplari del caso Enron. Ma più, molto di più, di quanto non sia successo per tanti altri casi finanziari “da galera” in Italia. A lasciare l’amaro in bocca, però, è il ritardo spaventoso con cui siamo arrivati alla sentenza di primo grado – sette anni, contro i sei mesi per Madoff – tanto che calcolando i tempi probabili delle altre due istanze già si parla di possibile prescrizione. Ecco, chi tarda a comprendere quanto sia disastroso il fallimento della giustizia italiana, dovrebbe prendere atto del fatto che se neppure un caso di reati finanziari dai gravi e diffusi effetti sociali come quello del crack Parmalat riesce a imboccare una corsia preferenziale, allora vuol dire che dobbiamo rassegnarci a non ottenere mai, in qualunque circostanza, sentenze in tempi ragionevoli.
Se a questo si aggiunge il fatto che i 40 mila obbligazionisti che si sono costituiti parte civile potranno, bene che vada, recuperare il 5% del valore dei titoli che avevano nel 2003 e che gli azionisti sono rimasti a bocca asciutta nonostante che la società attraverso l’amministrazione straordinaria (legge Marzano) abbia potuto salvarsi e tornare in Borsa (ottobre 2005), allora si capisce come i 18 anni per Tanzi siano una magra consolazione per chi di quella vicenda fu vittima.
Ma c’è di più.Dal caso Parmalat né il legislatore né la Consob – almeno finora, ma confidiamo molto in quel gran galantuomo di Giuseppe Vegas – hanno tratto alcun insegnamento per fare in modo che regole e controlli non si traducano in meri adempimenti formali – burocratici e costosi per chi è trasparente, inutili per chi è opaco – ma siano sostanziali e dunque davvero efficaci. Inoltre, ha del clamoroso che il prossimo 15 dicembre si festeggi il settimo anno di presenza di Enrico Bondi sulla tolda di comando della Parmalat.A lui va il merito di un buon risanamento,ma non è possibile che un amministratore designato per il tramite della Marzano consideri la sua carica di amministratore delegato come se fosse a vita, assumendo compiti che va ben oltre quelli di un intervento straordinario, e che nessuna autorità glielo contesti.

Fonte: Il Messaggero del 12 dicembre 2010

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