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Piu’ lavoro ai giovani, le ricette dall’estero

In un recente saggio pubblicato sul n. 2/2012 della rivista Diritto delle relazioni industriali (Giuffrè editore) dal titolo “La disoccupazione giovanile in tempo di crisi: un monito all’Europa (continentale) per rifondare il diritto del lavoro ?”, Michele Tiraboschi affronta il tema cruciale del lavoro dei giovani in una prospettiva – cara alla sua formazione – di diritto comparato. Dopo aver fatto notare che il concetto di disoccupazione è diventato sempre meno appropriato per contenere e descrivere le numerose criticità del rapporto tra giovani e lavoro (inattività, precarietà, sotto-salario in primis) nella difficile transizione tra la conclusione del ciclo scolastico e l’accesso al lavoro, l’autore osserva che la disoccupazione è un dato strutturale nella maggior parte dei paesi (industrializzati e non) risalente a molto prima della crisi economica che pure ne ha ampliato gli effetti e le conseguenze. Pertanto, afferma Tiraboschi, «l’inquietudine per gli alti tassi di disoccupazione giovanile non è, dunque, una vera e propria novità». Appare invece decisamente nuovo il tono di enfasi con cui la questione giovanile viene usata per giustificare «imponenti processi di riforma e deregolazione del mercato del lavoro».
Lo stesso tono enfatico si ritrova nelle parole di Mario Draghi nell’ormai famosa intervista al Wall Street Journal, quando il presidente della Bce ha messo in discussione la sostenibilità del cosiddetto modello sociale europeo, sollecitando, conseguentemente, una tassativa riforma dei diritti nazionali del lavoro presenti in Europa troppo squilibrati, nell’attuale fase di recessione, a favore degli insiders e cioè degli adulti. A questo proposito Tiraboschi ricorda che il trend della riduzione dei tassi di protezione del lavoro non è solo un processo europeo. Ben 40 paesi dei 131 aderenti all’Ilo (l’Organizzazione internazionale del lavoro) hanno ridimensionato i livelli di tutela del lavoro standard. Nell’Europa centro-meridionale le riforme rivolte a contenere la crisi hanno riguardato, in misura dell’83%, i livelli di tutela in materia di licenziamenti per motivi economici.
L’analisi di Michele Tiraboschi prende le mosse da un diverso angolo di visuale, a suo avviso decisivo per valutare la situazione effettiva: il differenziale tra la disoccupazione degli adulti e quella dei giovani. In alcuni Paesi, infatti, la disoccupazione giovanile è sostanzialmente in linea con quella degli adulti (Germania e Svizzera); in altri è all’incirca il doppio pur a fronte di livelli differenti di liberalizzazione (Portogallo, Danimarca, Spagna, Usa); in altri ancora (Italia, Grecia, Regno Unito, Svezia) il triplo se non oltre. A osservare gli stessi dati secondo una rappresentazione “geografica”, si può notare, secondo Tiraboschi, che la disoccupazione giovanile non si presenta come un fenomeno di particolare gravità negli ordinamenti in cui il ricorso all’apprendistato opera come strumento di placement, in una solida integrazione tra sistema educativo e formazione nel mercato del lavoro e non come contratto “temporaneo”. Anche il fenomeno dei Neet è meno grave nei paesi in cui è radicato l’apprendistato quale «strumento per l’acquisizione di un titolo di studio del sistema educativo secondario», come l’Austria e la Germania.
In sostanza, ecco una prima conclusione: «Le principali barriere di ingresso dei giovani nel mercato del lavoro risiedono non tanto nel quadro regolatorio di riferimento, quanto piuttosto nei percorsi di transizione dalla scuola al lavoro e, segnatamente, nell’assenza o debolezza degli strumenti di incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro». Dopo aver criticato le due suggestioni abbinate del “contratto unico” e della flexecurity, soprattutto nelle loro versioni italiane, Tiraboschi ritorna all’analisi comparata, che, a suo avviso, sta a dimostrare come «decisivi per gli andamenti della disoccupazione giovanile siano non solo e non tanto le regole del mercato del lavoro in tema di assunzioni e di licenziamenti presenti in un determinato Paese, quanto altri fattori quali la qualità del sistema educativo, la presenza di adeguati percorsi di integrazione e/o transizione dalla scuola al lavoro, la qualità del sistema di relazioni industriali, il funzionamento delle istituzioni del mercato del lavoro».
All’interno del pilastro relativo all’educazione e alla transizione scuola-lavoro, l’apprendistato ha un ruolo fondamentale, rappresentando – secondo l’autore – uno strumento culturale e formativo basato sull’apprendimento in ambito lavorativo. Per determinare la qualità del modello di apprendistato assumono rilievo, in ragioni simmetricamente opposte, la quantità di tempo dedicato all’apprendimento e il livello della retribuzione. Nell’apprendistato tedesco e austriaco è prevista una formazione “formale” di tipo professionale praticamente part time, incardinata nel sistema educativo e formativo. In Italia, l’apprendistato è prevalentemente un contratto di lavoro “flessibile” e “incentivato”, privo di reali contenuti formativi, se è vero che solo il 40% degli apprendisti riceve una formazione. Così, il livello di corresponsione economica è coerente con il rapporto tra formazione e lavoro. Da noi, gli apprendisti sono pagati quasi quanto una figura qualificata (l’80% circa) perché la formazione è trascurata. In Austria e Germania gli apprendisti ricevono la metà della retribuzione di un occupato esperto, come in Olanda e in Francia.
Infine, oltre all’utilizzo corretto degli strumenti contrattuali (soprattutto in sede decentrata), un sistema efficiente ed efficace di transizione scuola-lavoro deve poter contare su strumenti di placement che sappiano connettere sinergicamente il mondo del “sapere” e del “saper fare”, ovvero scuola e impresa.

Fonte: Sussidiario.net del 12 giugno 2012

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