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Per far ripartire l’Italia Monti deve avere il coraggio di puntare sulla competitività

La conversione del decreto Salva-Italia ha lasciato indifferenti i mercati; lo spread tra Btp decennali e Bund rimane appeso alla croce dei 500 punti base (anche se, dicono, è tutta farina del nostro sacco senza il soccorso della Bce); le Borse continuano a bruciare i risparmi delle famiglie. Tuttavia nelle recenti aste dei titoli di Stato sono apparsi flebili segnali di incoraggiamento. Mentre il premier Monti annuncia – in una lunghissima conferenza stampa – nuovi provvedimenti (la cosiddetta fase 2), si svolge nel Paese una sorta di “danza della pioggia” collettiva per invocare la crescita.
Come se fosse possibile creare sviluppo per legge, a colpi di spesa pubblica ed a prescindere dall’aggravamento della situazione economica internazionale in conseguenza della decelerazione delle attività produttive in Usa, nell’Eurozona e nei Paesi emergenti, gli stessi che hanno sostenuto il commercio mondiale nel 2010 a livelli pari al doppio dei trend attuali. Dopo il crollo del 2009 (- 10,7%) vi è stata una netta ripresa (+12,3%) nell’anno successivo; già nel 2011 l’andamento del commercio internazionale è sceso al 6,4% per attestarsi, secondo le previsioni, al 5% nel 2012.
In tale ambito è peggiorato anche il quadro macroeconomico dell’Italia, tanto che, nella Relazione al Parlamento sulle previsioni di crescita (dicembre 2011) sono state riviste al ribasso le stime contenute nella Nota di aggiornamento del DEF (settembre 2011), a partire da un – 0,4% nel 2012. La domanda è: come potrà il Belpaese evitare la recessione, invertire il segno negativo e garantirsi un minimo di sviluppo, sia pure in un contesto globale caratterizzato da una robusta decelerazione della crescita? La risposta è quasi banale: occorre recuperare – o quanto meno difendere – quote di mercato (complessivamente in contrazione) mediante una maggiore forza competitiva dell’apparato produttivo e dei servizi. Un obiettivo siffatto pretenderebbe certamente adeguate politiche pubbliche nel campo delle infrastrutture, della ricerca, dei fattori produttivi in generale: dal credito all’energia, dal fisco al costo del lavoro. Ma le difficoltà sono tante. I rischi connessi alla finanza pubblica generano problemi di tenuta del sistema creditizio, rendono scarsa ed onerosa, per il mondo produttivo, l’approvvigionamento dei flussi finanziari, provocando sia la recessione che l’ulteriore peggioramento dei deficit pubblici.
Nella “Grande crisi” della prima metà del XX Secolo fu l’intervento dei governi, negli Usa come in Europa, a contenerne i costi sociali (furono fondate le istituzioni pubbliche di welfare) e a sostenere la struttura produttiva (in Italia, con la creazione dell’Iri). Questa terapia è oggi impraticabile perché sono a rischio di default proprio gli Stati e i loro bilanci. In tanti, a partire da quei leader sindacali e imprenditoriali che infilano la parola ‘sviluppo’ in tutti i loro discorsi, sembrano aver dimenticato che la crescita è una variabile dipendente proprio dalla capacità di competere, la quale, a sua volta, è condizionata dalla possibilità di un uso ottimale della manodopera e dell’organizzazione produttiva e del lavoro.
In sostanza, se le parti sociali non perdessero il loro tempo a ripetere i soliti luoghi comuni con la prosopopea di chi ritiene di avere in dono la verità rivelata, potrebbero fornire un significativo contributo soltanto avvalendosi degli strumenti posti a loro disposizione dal governo Berlusconi. A partire da quell’articolo 8 del decreto di ferragosto che consente di negoziare, in deroga, a livello aziendale o territoriale, specifiche intese, a certe condizioni valide erga omnes, “finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, all’emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e dell’occupazione, agli investimenti e all’avvio di nuove attività” e riguardanti la regolazione delle materie attinenti all’organizzazione del lavoro e della produzione, incluse “le conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro” (a proposito di revisione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori).
E’ stata confermata una fiscalità di favore per le erogazioni salariali destinate all’incremento della produttività. Merita, poi, una considerazione particolare quanto previsto, nella legge n.183 del 2010, in tema di risoluzione delle controversie di lavoro, tramite una forma di conciliazione e di arbitrato da rendere operativa mediante la sottoscrizione, individuale e volontaria, di clausole compromissorie. La norma prevede che, in caso di mancato accordo delle parti sociali nel darvi attuazione, spetti al ministro del Lavoro di intervenire, in sede di mediazione prima, di regolazione sperimentale, poi. E’ il caso che la coraggiosa Elsa Fornero dia corso ad un impegno che ha costi uguali a zero e può essere molto utile alle imprese e ai lavoratori.

Fonte: Occidentale del 30 dicembre 2011

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