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Parmalat, una piattaforma a difesa del made in Italy

Il nodo della logistica e la tutela dei campioni nazionali Come Barilla e Ferrero, il gruppo di Collecchio ha una forte riconoscibilità all’ estero.
Spesso nel recente passato si è parlato di cordate o soluzioni nazionali per singole importanti aziende o per un settore e il concetto che alla fine guidava le scelte operative era il raggiungimento di economie di scala. Mettere assieme aziende sorelle per ridurre i costi ed evitare che singolarmente diventassero delle prede indifese. In quei casi il problema principale diventava il negoziato con il sindacato perché la somma di realtà anche relativamente omogenee aveva come conseguenza la creazione di consistenti eccedenze di manodopera. Sovente però queste operazioni di difesa nazionale si sono concluse con un fiasco o comunque con risultati deludenti, si finiva per assemblare due debolezze e quasi mai il matrimonio dava vita a politiche di innovazione. Uscendo dall’ archivistica e applicando questo schema del novecento manifatturiero al caso Parmalat la conseguenza che in diversi, a più riprese, hanno tratto era che il gruppo guidato da Enrico Bondi dovesse unirsi a un’ altra azienda emiliana, la Granarolo. Latte con latte, anche se la prima è leader nella lunga conservazione e la seconda nel prodotto fresco. Ma siamo sicuri che la strada da battere perché Parmalat non cada presto o tardi in mano straniera debba essere quella del «polo del latte»? Quando da più parti si fa riferimento alla necessità di dotarsi di una politica industriale varrebbe la pena di aggiungere l’ aggettivo «nuova», proprio per marcare la discontinuità con una cultura old style. Oggi più che gli insediamenti produttivi sono strategici la rete logistica/distributiva e il brand. E non c’ è discussione sul fatto che Parmalat sia, nel novero del food italiano, l’ azienda meglio posizionata. Per questo, più ancora che per la posizione che vanta in termini di dimensioni e di leadership nel latte Uht, il gruppo di Collecchio rappresenta un asset che potrebbe esser catalogato persino sotto il segno dell’ «interesse nazionale». La verità è che il futuro dell’ intera economia italiana è appeso alle sorti dell’ export. Vista la tendenza stagnante del mercato interno e le difficoltà di far partire una vera riforma fiscale siamo di fatto un’ economia export led. E aspettiamo di volta in volta i dati dell’ Istat sul commercio estero per capire se le buone performance delle nostre aziende e dei distretti dei mesi scorsi abbiano rappresentato o meno una fiammata. Ci mancano infatti i «binari» per mettere stabilmente piede nei mercati emergenti, la linea distributiva prevalente (e quasi esclusiva) è rappresentata dai negozi monomarca delle nostre multinazionali del lusso. Ma nel food il made in Italy ha potenzialità di vendita all’ estero che sono ancora largamente sottovalutate, lo dimostra il boom del Grana padano che ha fatto segnare +27% in Asia e idem in Russia diventando il formaggio Dop più venduto al mondo. E allora, pur applaudendo le nuove e coraggiose iniziative come il punto vendita Eataly a New York, perché non utilizzare la forza di brand assai conosciuti all’ estero come Parmalat, Barilla e Ferrero per sfondare nei nuovi mercati? Perché le nostre migliori aziende non si possono parzialmente trasformare – solo per quanto riguarda la presenza nei Paesi Bric – in portaerei del made in Italy? La Barilla ha intenzione di sbarcare in Cina e sta attentamente valutando il portafoglio prodotti adatto per quella realtà. Ebbene se c’ è una cosa che non manca all’ alimentare italiano sono i prodotti, siamo invece molto più deboli nella logistica e nelle reti distributive. Tornando a Parmalat la riflessione di tipo industriale che va fatta riguarda l’ insieme delle competenze aziendali di un gruppo che, non dimentichiamo, è già presente in quattro continenti. Per primeggiare a livello internazionale nel mercato del latte bisogna avere una cultura logistica del «fresco» di prima qualità, occorre essere di avanguardia nelle soluzioni che riguardano la meccanica e il packaging e tutto ciò diventa decisivo se si vuole traghettare il cibo italiano nei nuovi mercati. E la Parmalat, con l’ esperienza che ha, può essere tranquillamente la portaerei (almeno) di tutto ciò che è «fresco», dalla bevande ai formaggi. È evidente che concepire una «nuova» politica industriale esige una discontinuità (e una fantasia) alla quale non siamo ancora preparati, ma proprio per questo Parmalat rappresenta un caso di interesse nazionale.

Fonte: Corriere della Sera del 12 marzo 2011

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