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Nuova governance per la Rai

Parlando del problema Rai bisogna averne chiara la natura: che è politica. Se, paragonato con la Bbc, il costo del personale è tanto più elevato, e tanto maggiore il peso dei dirigenti sul totale, come ha evidenziato l’analisi di Roberto Perotti sul Sole 24 Ore il 7 giugno, la ragione è politica. Se quello che Rai fornisce è sostanzialmente uguale a ciò che trasmettono le altre tv o che si può trovare su internet, sicché il canone è percepito (e evaso) come una tassa, la ragione è politica. Politica: e in primo luogo della sinistra.

Quattro quesiti referendari, 18 sentenze della Corte costituzionale, alcune crisi di governo: per trent’anni la questione televisiva è stata la bandiera della sinistra. Da questa Guerra dei trent’anni (titolo che Antonio Pilati ed io avevamo dato alla storia dei rapporti tra politica e tv dal 1975 al 2008) la sinistra è uscita sconfitta: non è stata la questione televisiva a sbalzar di sella Berlusconi e a segnare la fine del berlusconismo. Inchiodata sui temi dell’antiberlusconismo ideologico, la sinistra è stata inefficace sul piano politico nel combattere l’avversario, e in ritardo sul piano culturale nel capire la portata delle novità che si andavano presentando, e a utilizzarle. Incontrando Silvio Berlusconi al Nazareno, Matteo Renzi ha messo fuori corso l’antiberlusconismo come strumento della politica. Ma anche per la nuova sinistra post-berlusconiana mettere mano alla Rai resta un problema delicato. Richiede che si operi una cesura netta con argomenti che, ripetuti per decenni, hanno finito per prendere la consistenza di una verità data: la missione educativa della tv di Stato, la pubblicità incompatibile con la qualità.

Richiede che si faccia piazza pulita di un armamentario da “guerra fredda”: l’uso politico del conflitto di interessi, i miti della Rai servizio pubblico e garante del pluralismo. Costrutti di retorica e di polemica politica che peraltro hanno consentito il formarsi di privilegi e rendite, e il difenderli contro i richiami all’efficienza; sono queste le ragioni di quella struttura top heavy descritta da Perotti. Si chiedeva di risparmiare sui costi, si è risposto riducendo gli investimenti: quelli in produzione di fiction sono scesi in 7 anni da 270 a 180 milioni l’anno. La Rai compera i prodotti all’esterno e conserva all’interno i funzionari nei loro posti.
Intervenire sulla Rai richiede grande attenzione per valide ragioni: nel settore dei media ci sono equilibri che non possono essere sconvolti; in azienda ci sono valori che devono essere preservati. Soluzioni drastiche, del tipo eliminare il canone, aumentare il limite di affollamento televisivo, mandar via 6-7.000 dipendenti, venderla, non sono al momento praticabili. Punto di partenza devono essere i punti forza dell’azienda: il suo posizionamento sul mercato; la sua presenza nella fiction; il suo passato, gli archivi, tutto il materiale che oggi può essere valorizzato su internet.

Se eliminare il canone non è proponibile, almeno lo si usi per scopi definiti, una sorta di tassa di scopo volta a far leva sui punti di forza. Primo: finanziare i programmi in cui si concentra l’identità Rai (Rai 1, Rai News, cartoni animati, Rai 5) trasmessi senza pubblicità. Secondo: contribuire al finanziamento di fiction, seguendo una logica analoga a quella del Fondo unico per lo spettacolo, con l’occasione mettendo un po’ d’ordine (eufemismo per eliminando) nella pioggia dei finanziamenti regionali. Rai 2 e Rai 3 sono interamente sul mercato, con gli stessi limiti di affollamento pubblicitario delle reti private. A loro faranno capo le sedi regionali che tanto contribuiscono ai costi e poco all’eccellenza, aperte ad accordi con le migliori tv locali.
Individuata la missione, adeguare la governance. La commissione di vigilanza, cinghia di trasmissione dell’infiltrazione politica, non va riformata, va eliminata. Controllare come vengono impiegate le risorse che si chiedono ai cittadini è il normale compito del Parlamento: non c’è bisogno di istituire commissioni speciali, bastano audizioni serie davanti alle (o alla) commissioni ordinarie: due volte l’anno presidente e amministratore delegato si presentino per rispondere di quello che hanno fatto e per spiegare quello che intendono fare.

Come nominarli, loro e il consiglio di amministrazione? I criteri di ammissibilità devono essere stabiliti a priori, i curricula resi di evidenza pubblica, l’ipotesi di interporre una fondazione scartata, dato che sposterebbe solo il problema e introdurrebbe un livello di opacità. Personalmente preferisco che sia il governo a indicare i nomi e il Parlamento ad approvarli. La Rai non deve essere trattata diversamente dalle altre aziende controllate dallo stato. Proprio per marcare la differenza con un passato di opaca ma penetrante ingerenza politica, il governo si prenda le sue responsabilità: proponga la lista dei candidati al consiglio di amministrazione, il Parlamento li senta, li esamini, li voti. Tanto, succede comunque che la maggioranza nomini un consiglio di suo gradimento, e in fondo è bene che sia così: ma almeno che lo sia in modo trasparente.

Fonte: Il Sole 24 Ore - 17 giugno 2014

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