• venerdì , 15 Novembre 2024

Le Partite Iva invisibili: tartassate e senza rete

Il giallo della busta Inps e la sentenza della CassazioneLe proiezioni «simulate»In assenza di proiezioni dell’ ente previdenziale, i consulenti stanno auto-simulando i propri piani pensionisticiLa proposta Cazzola-TreuLa «tassa aggiuntiva»Se diventasse legge, consentirebbe di sommare pensione sociale e rendimento dei contributi già versatiLa Corte di recente ha stabilito che il contributo alla gestione separata è legalmente una «tassa aggiuntiva»Partite Iva, il welfare negato dei lavoratori invisibili.
Si vive anche di simboli. E la busta arancione che l’ Inps aveva promesso di spedire ai suoi assistiti, comprese le partite Iva della cosiddetta gestione separata, era diventata in poco tempo per consulenti e professionisti senza Ordine un test di inclusione e di cittadinanza. Il governo, infatti, aveva annunciato che entro il 2010 l’ Inps avrebbe inviato a casa l’ estratto conto aggiornato dei versamenti previdenziali accantonati fino a quel momento. CONTINUA Quell’ estratto conto, novità assoluta, avrebbe contenuto addirittura una proiezione sull’ ammontare finale dell’ assegno di pensione. Un’ operazione perfetta perché avrebbe abbinato la massima trasparenza nel rapporto con i contribuenti a un vantaggio di «sistema». Chi, in virtù della documentazione fornita, avesse finito per giudicare insufficiente l’ ammontare previsto per la sua pensione, avrebbe avuto il tempo di potersi disegnare una polizza integrativa con caratteristiche complementari all’ assegno Inps. Il costruendo «secondo pilastro» del sistema previdenziale italiano ne avrebbe sicuramente tratto beneficio. Il sogno di avere un welfare scandinavo anche nel Belpaese (in Svezia e Norvegia esiste già l’ equivalente della busta arancione) si è però infranto con problemi organizzativi. L’ Inps dichiara che sarebbe stata assolutamente in grado di realizzare l’ operazione ma non lo erano la maggior parte delle altre Casse di previdenza (circa una trentina) a causa di una informatizzazione inadeguata delle proprie banche dati. Di conseguenza, archiviata l’ idea della busta arancio, tra un mese dovrebbe partire un piano B. Gli assistiti dell’ Inps dovrebbero comunque poter consultare online la propria posizione contributiva, accedendovi attraverso il solito «pin code» e la solita «password». Ovviamente l’ impatto simbolico e comunicativo non sarà lo stesso e comunque l’ Inps ha deciso di mettere a disposizione solo i dati sulla contribuzione già versata ma di non fornire proiezioni sul futuro. Il cambio di rotta sta facendo mugugnare le organizzazioni che rappresentano le professioni autonome non ordinistiche o comunque prive di una propria cassa previdenziale, non perché i loro rappresentanti siano indissolubilmente legati al mondo di Gutenberg (la documentazione cartacea) e odino il web, tutt’ altro. È che quella che poteva essere un’ operazione di inclusione è stata di fatto derubricata. Ma non è tutto. Assieme al mugugno sui simboli c’ è anche e soprattutto un problema di sostanza. Non si può andare avanti versando un contributo decisamente oneroso (il 27,2%) per attendersi poi a fine carriera pensioni minime. «Dietro la scelta del governo e dell’ Inps di non mandare la busta e di non mettere nero su bianco le proiezioni sulle prestazioni previdenziali di fine carriera – denuncia Anna Soru, presidente di Acta, l’ associazione dei consulenti del terziario avanzato – c’ è una scelta comunicativa ben precisa. Non si vuole creare allarme tra i contribuenti. Soprattutto tra quelli a regime contributivo puro». Le prime coorti di lavoratori assoggettati al contributivo dovrebbero andare in pensione tra 15-20 anni ma le previsioni che fanno gli esperti dell’ associazione sono preoccupanti. E segnalano un’ ulteriore differenza di trattamento con i lavoratori dipendenti. Chi infatti tra questi ultimi è stato collocato per effetto della recessione in cassa integrazione ha comunque usufruito della copertura previdenziale, mentre niente di tutto ciò è previsto per una partita Iva. Risultato: è molto probabile che quei professionisti nel 2025 «godranno» – mai espressione fu più ipocrita – di un assegno di pensione stimato tra i 600 e i 700 euro. Sta accadendo infatti che, in assenza delle proiezioni dell’ Inps, i consulenti a partita Iva si sono attrezzati auto-simulando i propri piani pensionistici secondo la casistica più ricorrente. L’ esempio-limite è quello di un professionista che in questi anni di economia terremotata abbia guadagnato all’ incirca mille euro al mese e che per effetto della crisi non abbia avuto sempre la continuità lavorativa, ebbene anche se versasse alle casse dell’ Inps per 15-20 anni il 27,2% dei propri incassi non arriverebbe nemmeno ad aver diritto all’ assegno di pensione sociale. E questa è, secondo Acta, la dimostrazione che l’ introduzione della gestione separata Inps ha generato gravi casi di ingiustizia che oggi, a quindici anni ormai dalla sua partenza, nessuno ha risolto. A complicare il quadro ci si è messa anche la Corte di Cassazione che di recente con una sentenza, la 3240/2010, ha definito la contribuzione alla gestione separata dell’ Inps «una tassa aggiuntiva sui redditi di lavoro autonomo» che ha «il duplice scopo di fare cassa e di costituire un deterrente economico all’ abuso di tali forme di lavoro». Ma come, si sono detti all’ Acta, noi subiamo un prelievo oneroso, non sappiamo cosa produrrà in termini previdenziali a fine carriera e la Corte lo bolla come un’ imposta utilizzata per disincentivare l’ abuso di strumenti flessibili! Si vuole forse colpire chi ha avuto la pazza idea di rinunciare al posto fisso e scegliere il lavoro autonomo? È chiaro che un professionista a partita Iva leggendo la sentenza si trova culturalmente sconfessato e per di più condannato a pagare una «tassa» che va a finire nelle casse della gestione separata Inps. Ma come si fanno a confondere imposte e accantonamenti previdenziali? La sentenza rischia di servire solo a giustificare che i versamenti accantonati non produrranno mai un assegno previdenziale degno di questo nome. Per di più se di tassa si tratta non si capisce perché debba essere pagata in cifra fissa (il fatidico 27,2%) e non secondo il criterio della progressività sancito dalla Costituzione. «Così non si aiuta l’ opera di riforma del welfare e non si costruisce un sistema equo per il lavoro autonomo. Le istituzioni parlano lingue diverse e comunque sembrano avere al centro della loro visione sempre e comunque il lavoro dipendente, come se nulla fosse cambiato in questi anni. È sconfortante» dichiara Anna Soru. Così come è mostruosa la progressione che in 15 anni ha portato il contributo previdenziale alla gestione separata dell’ Inps a salire dal 10 al 27,2% con un incremento del 270%. «Una tassazione svedese con prestazioni da welfare americano» scherzano ad Acta. Il paradosso è che tutte queste cose capitano proprio mentre in Parlamento è stato presentato un disegno di legge bipartisan da due deputati molto quotati come Giuliano Cazzola (Pdl) e Tiziano Treu (Pd) che parla fortunatamente un’ altra lingua e che evita a chi ha redditi molto bassi di versare per nulla. Se la loro proposta diventasse legge, un cittadino con dieci anni di contributi (non figurativi ma effettivi sommando esperienze da dipendente e non) avrebbe diritto alla pensione sociale alla quale potrebbe poi aggiungere il rendimento dei contributi versati. Più in generale il dispositivo prefigurato da Cazzola e Treu avrebbe il merito di armonizzare il sistema pensionistico nel suo complesso e migliorare la situazione di chi rientra nel sistema contributivo. Ma come è possibile che le istituzioni e la politica forniscano input così diversi tra loro? L’ impressione è che, presi alla sprovvista dalla Grande Crisi, non siano riuscite ancora a rimodulare i loro interventi e a parlare la stessa lingua. Così gli insider in questi mesi di recessione hanno potuto utilizzare tutta la strumentazione tradizionale del welfare mentre i professionisti autonomi non hanno usufruito di nessuna copertura per malattia, invalidità, disoccupazione e congedi parentali. Ormai però, almeno secondo i più recenti dati dell’ area milanese, solo un contratto su cinque è a tempo indeterminato e di conseguenza la contraddizione si fa stridente: abbiamo un sistema che non riesce a produrre posti fissi a sufficienza e però non rinuncia a tartassare i poveri cristi che per scelta o per necessità prendono la strada del lavoro autonomo. Delle due l’ una.

Fonte: Corriere della Sera 4 maggio 2010

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