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Lavorare meno, fare la fame (quasi) tutti

di Carlo Clericetti

Lo slogan sindacale degli anni ’70 è stato realizzato dal capitalismo del terzo millennio, ma a suo modo. Con l’ingresso sul mercato dei lavoratori dei paesi di nuova industrializzazione, in tutti quelli già sviluppati va scomparendo il “posto fisso”, scendono le ore lavorate e calano le retribuzioni per la maggioranza, mentre una quota minoritaria guadagna più di prima. E’ il risultato della grande svolta a destra degli anni ‘80

“Lavorare meno, lavorare tutti”. Quando Pierre Carniti lanciò questo slogan, negli anni ’70, non poteva certo immaginare che il capitalismo del terzo millennio lo avrebbe realizzato, ma in modo molto diverso da quello che il carismatico ex leader della Cisl aveva in mente. In tutto il mondo – salvo eccezioni – le ore lavorate in un anno per occupato scendono e c’è più gente che lavora, ma non c’è traccia del miglioramento della qualità della vita a cui puntava Carniti; anzi, accade il contrario.

Da allora è passato quasi mezzo secolo, e quello di oggi è un altro mondo. Il posto di lavoro classico, sei o cinque giorni alla settimana a tempo pieno, con un orario sempre uguale e una relativa sicurezza che così sarebbe stato fino alla pensione, riguarda ormai sempre meno persone. E solo una piccola minoranza dell’ultima generazione, quella che – se pure ci riesce – passa da un precariato all’altro. E allora magari sono “occupati”, ma per spezzoni di lavoro, oppure tre mesi sì e dopo chi lo sa. D’altronde si sa che la definizione statistica di “occupato” richiede solo che si sia lavorato almeno un’ora retribuita nella settimana precedente alla rilevazione; e anche se – come ha precisato il presidente dell’Istat Giorgio Alleva – coloro che si trovano in situazioni simili nella rilevazione “pesano” pochi decimali, resta che una definizione basata su un requisito così minimale fa rientrare tra gli occupati anche quelli che con quello che guadagnano non ci campano, che è poi la cosa che conta.

Una ricerca di qualche anno fa della McKinsey (The world at work: Jobs, pay, and skills for 3.5 billion people) diceva che tra il 1980 e il 2010 i lavoratori erano passati da 1,7 a 2,9 miliardi. Ma nel frattempo, almeno nei paesi Ocse, cioè quelli più avanzati economicamente, si generalizzava una tendenza alla riduzione delle ore lavorate. Ecco i grafici con l’andamento in alcuni paesi (la Corea da sola perché partiva da un numero di ore talmente alto rispetto agli altri che avrebbe appiattito tutti gli altri andamenti).

Come si vede, dall’inizio del secolo la tendenza è in discesa dappertutto, persino in Germania, che nella crisi non se l’è cavata tanto male. Fa eccezione solo il Regno Unito.

Anche l’Italia ha un andamento dissimile dagli altri, ma in questo caso perché è molto più accentuato. Gli ultimi due governi hanno più volte menato vanto di aver fatto aumentare l’occupazione. Ora, a parte che dopo un crollo come quello che c’è stato un rimbalzo è fisiologico, bisogna dire che questo rimbalzo ci lascia ancora assai lontani dalla situazione che c’era prima della crisi. Sì, il numero di occupati è tornato ai livelli del 2008, ma le ore lavorate restano pesantemente minori di allora. Nel 2007 erano state appena meno di 460 milioni, nel 2016 hanno stentato a raggiungere i 428. E così le Ula, unità di lavoro standard a tempo pieno, restano altrettanto pesantemente più basse: da più di 25 milioni sono passate a meno di 23,8. In pratica, è come se ci fossero 1 milione e 355 mila posti a tempo pieno in meno. Ecco i dati in tre grafici (nota metodologica: Ula e ore lavorate sono dati di contabilità nazionale e comprendono anche il lavoro irregolare; quindi, per uniformità, abbiamo usato il dato analogo, che cioè comprende il lavoro irregolare, anche per gli occupati, che risultano quindi quasi due milioni in più degli occupati regolari).

Questo lavoro diviso tra più persone, dunque, non è una conquista che nasca da lotte e rivendicazioni. E’ il risultato di una politica globale declinata poi in ciascun paese con tempi diversi che dipendono dalle specificità di ognuno, ma, come si vede, la direzione è la stessa per tutti. La globalizzazione, con l’apertura delle frontiere e la piena libertà di movimento dei capitali, ha messo in concorrenza i lavoratori dei paesi più avanzati con un paio di miliardi di lavoratori dei paesi poveri, stroncando la forza contrattuale dei primi. Non ti accontenti di questa retribuzione? E io sposto l’azienda dove un terzo di questo salario è già un sogno e dove non ci sono fastidiosi lacci e lacciuoli che soffocano gli affari, dove non si bada all’ambiente, la sicurezza sul lavoro è affidata alla fortuna e magari non ci sono nemmeno libertà sindacali e diritto di sciopero. Il risultato si vede, ecco un grafico preso ancora dallo studio della McKinsey. In 35 anni la quota di Pil che va ai salari è scesa, nelle economie avanzate, di oltre 7 punti percentuali.

L’Italia non fa certo eccezione, e semmai le cose vanno peggio. Se si dividono in cinque gruppi (quintili) i salari per importo, si vede che nel corso della crisi è molto aumentato di numero il primo quintile, quello dei salari più bassi; il secondo è aumentato pochissimo, ma il terzo e il quarto – ossia i salari medi e medio-alti – sono nettamente diminuiti; sorpresa: sale non di poco l’ultimo quintile, quello dei salari alti. La grande maggioranza è stata spinta in basso, ma c’è un 20% che, alla faccia della crisi, adesso guadagna di più. Nei tre paesi europei comparabili col nostro (Francia, Germania e Regno Unito) non ci sono stati andamenti simili, anche se in linea di massima le disuguaglianze sono aumentate anche lì. Serve una conferma? Ce l’abbiamo da una slide presentata dal presidente dell’Istat, Giorgio Alleva, in una lezione tenuta il 31 ottobre all’università Roma 3 in apertura dei corsi per la laurea magistrale in mercato del lavoro e relazioni industriali. Dal 2008 crolla drammaticamente l’occupazione a reddito medio, cresce quella ad alto reddito, si impenna quella a basso.

I posti persi nella terribile crisi sono stati in gran parte quelli delle migliaia e migliaia di aziende che hanno chiuso i battenti, relativamente stabili e con contratti di vecchio tipo. Quelli recuperati negli ultimi anni sfruttano tutte le possibilità – e sono davvero tante – offerte dalle varie riforme, dal “Pacchetto Treu” del ’97 in poi, tutte tese a ridurre il costo del lavoro e le garanzie, sacrificati sull’altare dell’idolo “flessibilità”, la più tenacemente perseguita delle “riforme strutturali”, che avrebbe dovuto rilanciare l’economia e la produttività. Oggi sarebbe arrivato il momento di scoprire l’acqua calda: la flessibilità, senza domanda interna, senza investimenti, senza politiche attive del lavoro adeguate, serve solo a perseguire una politica autodistruttiva di contenimento del costo del lavoro e a gettare in condizioni sociali drammatiche una parte crescente di cittadini.

A questo punto ci ha portato la grande svolta a destra degli anni ’80, quella cominciata con la Thatcher e Reagan. Finché non ci sarà un’altra svolta di segno contrario, il futuro che ci aspetta potrà essere solo la prosecuzione di quello che abbiamo visto in questi anni.

Fonte: Repubblica.it, 19 dicembre 2017

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