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La fuga in Polonia del Made in Italy

Il crollo della domanda interna e i costi del lavoro fuori mercato.Ultima chiamata dai big del «bianco» «Meno fisco o ci spostiamo in Polonia»
I toni sono forti, quasi esasperati. «Se nei prossimi mesi non cambia tutto ce ne andiamo in Polonia». A parlare stavolta non sono gli artigiani ribelli del Varesotto o i padroncini del Nord Est ma i big dell’industria dell’elettrodomestico. I rappresentanti di gruppi multinazionali che si chiamano Electrolux e Whirlpool e di campioni tricolori come Indesit o Elica. Il bianco è stato uno dei settori simbolo del miracolo economico italiano grazie a una straordinaria concentrazione di capitani d’industria che si chiamavano Zanussi, Borghi, De’ Longhi e Merloni. Eravamo la fabbrica d’Europa delle lavatrici. Oggi gli imprenditori hanno la paura di fare quella che chiamano senza tante ipocrisie «la fine del tessile», di essere condannati a un inevitabile declino. Racconta Luigi Campello, amministratore delegato della Electrolux: «Dal 2007 ad oggi per il settore è stata una continua batosta. In Italia producevamo 6 milioni di frigoriferi l’anno e ora siamo passati a 3. Da 8,5 milioni di lavatrici siamo a quota 4,5 e anche le lavastoviglie si sono dimezzate».
La crisi della domanda interna ed europea è verticale, i consumatori scelgono il prodotto che costa meno o all’opposto il brand tedesco e per chi produce nel Belpaese il deficit di competitività è diventato insostenibile. Non è un caso che sia nato in Polonia una sorta di distretto parallelo dell’elettrodomestico italiano — come era successo in Romania a Timisoara per le scarpe—ed è sempre più difficile tener dietro ai produttori turchi. Impietoso Campello continua: «Una volta ci rifugiavamo nell’illusione che i nuovi Paesi produttori non avrebbero mai raggiunto il livello di qualità delle fabbriche italiane. Purtroppo non è più così. La qualità è grosso modo la stessa ma il costo del lavoro è imparagonabile ». Ventiquattro euro in Italia contro sei in Polonia.
«La verità è che l’industria degli apparecchi domestici e professionali in Italia è precipitata in una crisi strutturale » aggiunge Andrea Sasso, presidente della Confindustria Ceced, l’associazione di categoria. I dati negativi riguardano un po’ tutti i prodotti: i grandi elettrodomestici nei primi 10 mesi del 2011 hanno visto tutti una ulteriore contrazione delmercato italiano rispetto all’anno precedente: -7% per le lavatrici, -11% per le lavastoviglie, -10% per i frigoriferi e -9,6% per i piani cottura. Ma anche i piccoli elettrodomestici sono andati sotto (-2%), le cappe ancor di più (-15%) e persino i climatizzatori, che sembravano il grande business nell’epoca del global warming, hanno fatto registrare -13,1%. Che fare? La parola d’ordine che gira in Confindustria è «delocalizzare».
«E’ una questione di sopravvivenza» argomenta Sasso e polemizza persino con il segretario del Pdl, Angelino Alfano, che mercoledì a sera a Porta a porta ha sostenuto che gli industriali italiani vanno a produrre all’estero per guadagnare di più. «Guadagnare? Mi dispiace che l’ex ministro non sappia come ormai la nostra redditività sia arrivata ai minimi e la Polonia ci appaia come il vero Paese competitivo rispetto all’Italia ». La tesi di Sasso è che se la Confindustria non intercettasse questo profondo malessere gli industriali del bianco se ne andrebbero comunque dall’Italia, «anzi alcuni stanno già scappando ». E per quella che resta comunque la seconda manifattura nazionale dopo l’auto è una sconfitta senza proporzioni. Tra fabbriche e indotto gli elettrodomestici danno lavoro a 130 mila persone in Italia e davanti a questi numeri è facile capire che una delocalizzazione spinta avrebbe effetti tragici. Sasso e Campello ci tengono però a spiegare come in questi anni l’industria del bianco non si sia rassegnata anzitempo. «Abbiamo combattuto e solo oggi siamo stremati. Abbiamo rinnovato in pochi anni il 30% del catalogo prodotti, abbiamo puntato su nuovi business come l’asciugatura e, soprattutto, abbiamo speso in ricerca e innovazione il 18% del fatturato, una percentuale altissima rispetto al passato e ad altri settori».
Adesso però gli industriali ammettono di non riuscire più a farcela da soli. Da mezze frasi si capisce che hanno avviato primi contatti con il nuovo ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera, ma non sarà facile trovare una quadra. Un consolidamento delle aziende italiane con aggregazioni, emagari la creazione di un polo Electrolux-Indesit, viene giudicata dagli esperti senza senso, non risolverebbe i problemi di competitività e forse creerebbe maggiori eccedenze di personale. Le richieste che Sasso sta elaborando vanno in tre direzioni. La prima riguarda il costo del lavoro: è vero — dicono — che in Italia ci sono ottime competenze, ma senza intervenire sul cuneo fiscale non c’è possibilità alcuna di tener dietro a polacchi, turchi e coreani. «Il governo lo sappia». La seconda chiama in causa le spese per la ricerca. «Se si vogliono mantenere in Italia almeno i centri di innovazione servono incentivi pubblici». Per ultimo intensificare i controlli sui prodotti che vengono importati (dalla Cina, ad esempio) e che spesso aggiungono alla concorrenza trasparente anche quella sleale. Ma come farà il governo tecnico a dotarsi, di questi tempi, di una politica industriale onerosa? E se gli imprenditori dell’elettrodomestico riuscissero, dietro la minaccia di delocalizzare, ad ottenere una legge ad hoc non si aprirebbe subito dopo una rincorsa da parte degli altri settori in crisi? Vedremo e non dovremo nemmeno aspettare tanto.

Fonte: Corriere della Sera del 17 dicembre 2011

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