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L idea del Fmi: sull inflazione la Bce alzi il target al 4%


Istat mercoledì ha cer¬tificato che i prezzi al consumo non hanno subito alcun aumento in luglio ma una leggerissima contrazio¬ne (-0,1%) rispetto al livello rag¬giunto in giugno. Mentre in Sici¬lia, Sardegna e Trentino, gli indi¬ci dell’andamento dei prezzi hanno segnato piccoli aumenti, in tutte le altre Regioni hanno accusato riduzioni, particolar¬mente forti in dieci grandi città. Perché dovremmo preoccupar¬ci? Di solito è l’incessante cre¬scita dei prezzi, principalmente di beni e di servizi considerati ‘di prima necessità’, a far tre¬mare i polsi alle massaie ed ai padri di famiglia. Gli economi-sti si innervosiscono per la loro contrazione. Il fenomeno avvie¬ne al termine di un decennio di stagnazione e dopo quattro an¬ni della recessione più lunga dal¬la fine delle Seconda guerra mondiale. Può essere l’inizio di una deflazione in cui l’Italia si avvita su se stessa: i consumato¬ri ritardano acquisti in attesa di ulteriori riduzioni dei prezzi, la produzione diminuisce, la di¬soccupazione cresce. Lo stessa ribasso dei tassi d’interesse com¬porta una riduzione dei rendi¬menti per molte forme di previ¬denza integrativa; quindi o si au¬menta il montante con accanto¬namenti più alti o nella terza età ci si dovrà accontentare di asse¬gni più sottili (anche in quanto la previdenza pubblica viene ‘ri-valutata’ in base all’andamento del Pil). La deflazione, quindi, pesa anche sulle nuove genera¬zioni. E fa paura. Internazionale (il Working Paper 14/92) argo¬menta, con solide analisi, che occorre portare la regola dal 2% al 4%: la crisi che tormenta l’eu¬rozona sarebbe meno severa se l’asticella dei prezzi fosse più al¬ta. All’interno del servizio studi della Bce, cominciano a circola¬re lavori in questo senso. So¬prattutto, la misura, pur non ri¬solutiva, avrebbe un effetto sui comportamenti di imprese e consumatori: la consapevolez¬za che la Bce è pronta ad accet¬tare un più alto tasso d’inflazio¬ne sarebbe un segnale impor¬tante che si volta pagina rispet¬to ad un’austerità basata su pa¬rametri e vincoli di cui non si Nel Ventesimo secolo da defla¬zioni di peso si è usciti o con un forte impegno della mano pub¬blica (finanziando in deficit spese soprattutto per investi¬menti) oppure scivolando ver¬so regimi politici autoritari. Nessuno si augura questa se¬conda prospettiva. Le regole dell’unione monetaria chiedo¬no che si vada verso il pareggio di bilancio. La deflazione – af¬fermano studi nell’ultimo nu¬mero del Journal of Common Market Studies – potrebbe es¬sere la miccia della ‘disintegra¬zione europea’ (è il titolo del saggio di Hans Vollaard dell’U¬niversità di Leiden in Olanda).

Può la Banca centrale europea dare un contributo? Probabil¬mente, sì. Non tanto con misu¬re ‘non convenzionali’ (come gli Omt, Outright Monetary Tran¬sactions, dirette principalmen¬te all’acquisto di titoli del debi¬to pubblico). Quanto con azioni mirate a mostrare che le autorità monetarie europee sono pronte ad accettare un tasso moderato d’inflazione per uscire dal peri¬colo della ‘deflazione’.

Il primo regolamento approva¬to dagli organi di governo della Bce afferma che l’istituto deve intervenire per stabilizzare i mercati (ossia in senso restritti¬vo) se il tasso d’inflazione supe¬ra il 2% l’anno. Da settimane , un documento del Fondo Mo¬netario toccano ancora i benefici.

Fonte: Avvenire - 15 Agosto 2014

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