• domenica , 6 Ottobre 2024

Imprese, Globalizzazione 2.0

Quell’ etichetta con su scritto ” Made in China” continueremo a vederla dappertutto, ma il marchio, accanto, sempre meno spesso sarà italiano, francese o americano e sempre più spesso invece sarà cinese. E’ la Globalizzazione 2.0, la nuova fase di questa trasformazione epocale del pianeta, che è silenziosamente cominciata e i cui meccanismi potrebbero, questa volta, anche aiutarci un po’ a tirarci fuori dalle secche della crisi. Quella che sta accadendo è una inversione di tendenza. Dopo 25 anni in cui la parola d’ ordine in Occidente è stata “delocalizzare”, ora il ciclo è cambiato.Non si va più in Cina per produrre a basso costo e poi riesportare verso i paesi industrializzati, i soli che avevano fino a poco tempo fa la capacità economica di assorbire quelle merci, ma sempre più si va a produrre in Cina, in India, in Brasile per produrre per quel mercato. La novità è che ancora nel 2005 si doveva essere forti in America per avere un’ ambizione globale, ora è la Cina il luogo dove si costruisce una posizione competitiva da utilizzare poi nel resto del pianeta. «La globalizzazione che abbiamo conosciuto fino ad oggi dice Paolo Guerrieri, docente di Economia all’ Università La Sapienza di Roma e vice presidente dell’ Istituto Affari Internazionali è stato il processo di costruzione di grandi reti produttive planetarie con una corrente ‘nordsud’ . Ora invece quella corrente comincia ad essere ‘sudnord’ e anche ‘sudsud’ ». Questo passaggio è determinato dall’ incrocio di forze potenti e in parte nuove, che ridisegneranno la geografia economica nel prossimo decennio e oltre. La prima e più importante, è il trasferimento del baricentro dell’ economia e della crescita dal mondo industrializzato verso le potenze emergenti. E’ un processo in corso da decenni, ma ora alla velocità si aggiunge la dimensione, con la Cina seconda potenza economica mondiale, il Brasile sesta, l’ India in rapido avvicinamento. Ma se lo spostamento è assodato, quello che sta emergendo in questi mesi è l’ agire delle forze interne, sia in Oriente che in Occidente, che di questo epocale passaggio stanno disegnando i contorni. La novità della Cina è l’ esplosione del suo mercato interno, diventata una politica, varata dal partito e dal Congresso del Popolo, che si sono dati l’ obiettivo di aumentare sostanzialmente i consumi interni del paese. E uno degli strumenti per realizzare questo obiettivo è l’ aumento dei salari, che già dati tratti da uno studio pubblicato dal McKinsey Quarterly (numero 3 del 2010) dal titolo Building a second home in China sono cresciuti del 15 per cento all’ anno dal 2000 al 2009. Secondo Dong Tao, il chief economist per l’ Asia del Credit Suisse, i salari dei lavoratori migranti, quelli che si spostano dalle campagne verso le città, sono cresciuti del 40 per cento circa nel 2010 e cresceranno tra il 20 e il 30 per cento per ciascuno dei prossimi tre anni. «Quando gli storici descriveranno il 2010 ha detto Tao a Bloomberg Businessweek il grande evento sarà il massiccio aumento dei salari in Cina, che ridefinirà il modello manifatturiero globale e segnerà le prospettive di inflazione per il prossimo decennio». La tendenza non cambierà. Perché il governo cinese, proprio per favorire un aumento ordinato dei salari, sta prudentemente introducendo la contrattazione collettiva nelle relazioni industriali, e ancora di più perché, stando ad un rapporto recentemente pubblicato da Credit Suisse, nel 2014 la domanda di lavoro supererà l’ offerta. Questo passaggio da luoghi di produzione a mercati di consumo non sta avvenendo solo a Pechino. Sempre secondo McKinsey, sulla base di dati pubblicati nel 2009 dall’ Economist Intelligence Unit, da Euromonitor e dalla Banca Mondiale, attualmente la classe media nei paesi emergenti spende qualcosa come 6 mila 900 miliardi di dollari l’ anno. Ebbene questa cifra è destinata ad arrivare a 20 mila miliardi di dollari nel 2020, il doppio dell’ attuale spesa per consumi negli Stati Uniti. Di qui l’ importanza di essere in quei paesi per conquistare quote nei loro mercati. Ma esserci per esportare? Il discorso è esattamente inverso perché i vantaggi in termini di costo della produzione stanno rapidamente diminuendo. La prima ragione è l’ aumento dei salari, la seconda, un po’ più complessa, è l’ incrocio dell’ aumento dei prezzi delle materie prime con i tassi di cambio. Le valute dei paesi emergenti, Cina in tesa, hanno livelli di cambio artificialmente bassi, c’ è chi stima del 3050 per cento rispetto al dollaro. I cambi bassi favoriscono l’ export ma penalizzano nel momento in cui si devono acquistare in dollari materie prime sempre più costose. Quello che sta succedendo è che il costo delle materie prime calcolato in Yuan o in altre valute dei paesi emergenti, si sta mangiando parte dei vantaggi ottenuti inseguendo il basso costo del lavoro, mentre l’ aumento dei costi di trasporto determinato dal balzo del petrolio se ne sta mangiando un altro po’ . Gli esperti di McKinsey ritengono che proprio gli alti prezzi delle materie prime potrebbero spingere la Cina e gli altri paesi emergenti a rivalutare le loro monete più rapidamente di quanto avrebbero in programma. Ma che aumentino i cambi o che resti in piedi il problema delle materie prime, resta il fatto che esportare da quei paesi è diventato meno conveniente, e quindi meno conveniente delocalizzare. C’ è un altro fenomeno che si aggiunge ai precedenti, ed è l’ emergere di marchi e imprese basate nei paesi emergenti e in grado di competere sul mercato globale. E’ quel flusso ‘sudnord’ e sudsud’ del quale parlava Guerrieri. Nell’ ultimo Fortune 500, nella lista delle più grandi aziende del mondo pubblicata appunto da Fortune, ben 46 sono cinesi (per farsi un’ idea quelle francesi sono 39 e quelle tedesche 37), 7 brasiliane, 8 indiane. Se si guarda poi agli investimenti diretti esteri in uscita, si scopre che la Cina, che era marginale con 7 miliardi di dollari in media l’ anno tra il 2000 e il 2006, nel 2008 era salita a 52 miliardi. Sono i segnali chiari che ormai c’ è un’ onda di nuove multinazionali capaci di essere presenti su tutti i mercati, seguite da nugoli di altre imprese, di dimensioni medie ma ugualmente aggressive e competitive. L’ effetto sulle strategie degli imprenditori occidentali è drammatico: delocalizzare serviva a contenere i costi per competere con gli altri occidentali sui mercati occidentali, contro questi nuovi titani il modello che puntava solo sui costi non basta più, bisogna rivedere tutto. La buona notizia a questo punto è che in effetti, proprio a causa di quello che sta accadendo ad Oriente qualcosa ha cominciato a muoversi anche in Occidente. Ha cominciato a cambiare la percezione dei rischi e delle opportunità: «Dal rincorrere la riduzione dei costi di produzione si sta passando a rincorrere la crescita di valore» sintetizza Guerrieri. Il primo passo è stata la riscoperta della manifattura. Per vent’ anni il mantra è stato la crescita dei servizi, con effetti devastanti: negli Stati Uniti il contributo dell’ attività manifatturiera sul prodotto lordo è crollato dal 16 per cento del 1990 all’ 11,2 del 2008, nel Regno Unito dal 17,7 all’ 11,4, ne è stato affetto perfino il Giappone dove la quota è scesa dal 28,2 al 20,4. Un altro paio di dati aiutano a farsi un’ idea: in Gran Bretagna nel 1966 il settore manifatturiero impiegava 8 milioni di addetti, nel 2005 2,5 milioni. Negli Stati Uniti la quota dei profitti totali realizzati dal settore finanziario era del 16 per cento nel 1980, nel 2008 è stata ben del 41 per cento. Ci accorgiamo ora che per gli Stati Uniti e per i paesi che maggiormente li hanno imitati il passaggio da potenze economiche basate sull’ alta tecnologia e orientate all’ export ad economie basate sui servizi e orientate ai consumi è stato devastante. I disavanzi giganteschi delle bilance commerciali e il fatto per fare un esempio che il 45 per cento dei container che partono da Port Elisabeth nel New Jersey, alla periferia di New York, sono vuoti, ne sono la dimostrazione. Ebbene, l’ impressione è che quel ciclo stia cominciando a invertirsi. Nel discorso sullo stato dell’ Unione alla fine dello scorso gennaio Barak Obama ha posto l’ accento sull’ importanza della manifattura e della tecnologia. Nella stessa Inghilterra l’ indice delle Pmi manifatturiere, dopo quasi due decenni di declino, nell’ ultimo trimestre del 2010 si è impennato tornando ai livelli del 1992. La ragione di questa inversione di tendenza è duplice. La prima è che se produciamo poco o nulla, quei deficit nelle bilance commerciali non li colmeremo mai per la semplice ragione che dovremo continuare a comprare fuori cose che non produciamo più e continueremo a non avere merci con le quali riempire i container che oggi arrivano pieni dalla Cina e ripartono vuoti. La seconda è che l’attività manifatturiera è un volano fondamentale per il terziario avanzato. E’ un regolatore dell’economia, che contamina con la sua concretezza anche gli altri settori.
L’Occidente finanziarizzato aveva perso la misura delle cose, la manifattura può aiutarlo a ritrovarla.Il rallentamento del ciclo delle delocalizzazioni, il ritorno della centralità della manifattura, il passaggio da strategie basate sulla riduzione dei costi a quelle basate sulla creazione di valore sono buone notizie per l’ Occidente maturo. Ma c’è un ma. Le chiavi di questa nuova sfida, con noi stessi e con i nuovi titani orientali, si chiamano produttività e innovazione. Reggeranno le imprese e i sistemi paese che sapranno reggerla, per gli altri il futuro è già segnato.

Fonte: Affari e Finanza del 14 marzo 2011

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