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Governare l’economia ai tempi dell’incertezza

LA GRANDE crisi degli anni 2007 2009 ha lasciato eredità più pesanti che ogni altra: una incertezza diffusa e profonda ottunde la vitalità degli operatori; la contraddizione fra i necessari interventi di rianimazione e le esigenze di stabilità nel periodo più lungo rende difficile l’ opera della politica economica. Il presidente della banca centrale americana Ben Bernanke, che è saggia e onesta persona, disse a luglio che “la prospettiva è singolarmente incerta”; ha ripetuto pochi giorni fa che “le proiezioni macroeconomiche sono intrinsecamente incerte e l’economia resta esposta a sviluppi inattesi”; ha promesso che, se necessario e non troppo rischioso, aumenterà ancora la già generosa provvista di liquidità. L’incertezza è paralizzante. Si manifesta quando non si sa nemmeno quello che può capitare; quando, scottati dall’esperienza passata, si teme la presenza di tante “incognite ignote”, che è impossibile valutare e da cui quindi non ci si può proteggere. In una situazione siffatta ci si mette al sicuro, per non esporsi a un rischio non misurabile: non azioni, ma titoli di Stato di grandi paesi; liquidità in cassetto; rinvio di impegnativi progetti di investimento. L’incertezza è aggravata dalla incoerenza interna degli obiettivi delle politiche economiche. Le famiglie americane si sono redente: il loro tasso di risparmio, negativo o nullo sino a un paio di anni fa, è ora salito a un rispettabile 6 per cento. Buona cosa, si dirà: ma a regime; per ora, questo sano desiderio di risparmiare per ridurre i debiti comprime i consumi e compromette la ripresa. Il settore pubblico cerca di sostenere la domanda con aumenti di spesa e riduzioni di entrata, sostituendo in definitiva il debito pubblico a quello privato. Ma alla lunga un aumento massiccio di debito pubblico, come quello subito da alcuni paesi, compromette la crescita e pone problemi di solvibilità e di sostenibilità. La politica monetaria ha abbandonato ogni convenzione consacrata da tre decenni di austera letteratura: poiché i tassi d’interesse ufficiali non possono scendere al di sotto dello zero, e neppure lo zero basta a tonificare l’economia, le banche centrali hanno creato base monetaria (come un tempo si diceva) in gran copia, acquistando sul mercato titoli pubblici o privati: quella americana per ben 2000 miliardi di dollari. Sinora, neppure questo è bastato. Quella liquidità resta in giro, senza trovare per ora destinazione nel finanziamento di investimenti e consumi: ma, se non sottratta al momento opportuno, può divenire il combustibile per una rinnovata fiammata speculativa e/o inflazionistica. Questi problemi affliggono certamente gli Stati Uniti; trovano impotenti i responsabili della politica economica; rischiano di compromettere la rielezione di Obama (se una decisa ripresa nel 2011 non consentirà di riassorbire la disoccupazione). È vero che l’Europa sta molto meglio, come si va ripetendo? È opportuna cautela. Anzitutto, per forza di ripresa e capacità di resistenza al contagio il riferimento è non tanto l’Europa nel suo complesso, quanto la Germania. Francia e Italia crescono assai modestamente; Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo dovranno penare assai per ridurre gli squilibri accumulati nel decennio. In secondo luogo, l’esperienza storica fa dubitare che l’Europa possa muoversi da sola quando gli Stati Uniti stanno fermi: se continua l’incertezza sulle prospettive dell’economia americana, forse non la Germania, ma i paesi europei meno forti ne risentiranno. L’Italia è uscita bene dalla crisi finanziaria ma male dalla recessione, con una perdita di prodotto ben maggiore che negli altri paesi. Alla fine del secolo scorso eravamo intorno ai livelli della Germania (o superiori) per prodotto pro capite e produttività del lavoro. Alla fine di questo decennio registriamo un arretramento relativo di circa dieci punti sia rispetto alla Germania sia rispetto all’area dell’euro. La Germania avviò per tempo un massiccio processo di ristrutturazione; noi lo iniziammo in ritardo, non riuscendo a completarlo prima della crisi e senza aver risolto il problema delle insufficienti dimensioni delle nostre imprese. Su una struttura fragile come quella italiana l’incertezza fa danni maggiori. A quella di origine esterna, su cui non possiamo intervenire, noi ne aggiungiamo una dose abbondante prodotta all’interno dalla incertezza crescente del quadro politico, istituzionale e normativo.

Fonte: Repubblica del 31 agosto 2010

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