La struttura del sistema pensionistico italiano rappresenta una delle principali ragioni di preoccupazione dei giovani di oggi.E non a torto. Col passaggio al sistema di calcolo delle ‘spettanze’ legato ai contributi versati,infatti,le giovani generazioni hanno ben presto imparato che la loro pensione sarà in futuro molto più bassa di quella dei loro ge¬nitori, zii o nonni. Eppure la ragione di questo svantaggio non è da ricercare nella natura del ‘sistema contributivo’ rispetto a quello ‘retributivo’ quanto al modello italiano.Cerchiamo di capire perché.In primo luogo va chiarito che il metodo ‘contributivo’ non assicura affatto che le pensioni future saranno il frutto degli investimenti effettuati con i contributi versati oggi da chi è in età da lavoro. Il sistema previdenziale resta infatti «a ripartizione», ossia i contributi dei lavoratori non sono accantonati a loro beneficio,ma vengono comunque ‘ripartiti’ per finanziare le prestazioni ai pensionati di oggi.
Le spettanze, dunque che non sono più calcolate in base alle re¬tribuzioni, come avveniva nel vecchio metodo di calcolo ‘retributivo’ vengono assicurate sì in base ai contributi, ma intesi come ‘figurativi’,cioè al montante ‘figurativo’ con essi ‘figurativamente’accumulato.In termini tecnici,il metodo si chiama «Notional Defined Contribution» (Ndc).
LItalia e la Svezia sono stati i primi Paesi a passare da un sistema pensionistico retributivo a uno contributivo.Ma se in Italia siamo ancora nel mezzo della transizione da un metodo allaltro inizialmente stabilita in 18 anni (dal primo gennaio 1996),ma che sarà di almeno 25 anni se si tiene conto delle pensioni di reversibilità e di altri aspetti , in Svezia la transi¬zione è stata completata nel 1999, ossia in soli tre anni. Questo, non perché gli svedesi siano maratoneti e gli italiani delle lumache, ma per ragioni storiche e di interessi particolaristici e clientelari.
Alla fine degli anni Sessanta lItalia si era data il sistema previdenziale retributivo tra i più generosi al mondo con ‘tassi di sostituzione'(rapporto tra ultimo stipendio e primo assegno previdenziale) prossimi all80% e con la possibilità di cumulare più pensio¬ni.Nel 1995, per fare un esempio, la metà dei pensionati aveva almeno due pensioni pubbliche, molti ne avevano tre e ne fruivano sin da unetà relativamente giovane.In Svezia,il ‘tasso di sostituzione’ non superava invece il 60% e le pensioni pubbliche non potevano essere cumulate.
Il fardello che grava sulle giovani generazioni (che, lo ricordiamo, pagano le pensioni degli anziani) è diventato particolarmente pesante in Italia, mentre è molto più leggero in Svezia, anche perché qui il cambiamento del metodo di calcolo è stato accompagnato da un aumento delletà di pensionamento per ridurre la platea di pensionati. Nel Belpaese,invece, alcuni gruppi sociali particolarmente forti e agguerriti hanno difeso le generose pensioni ‘retri¬butive’ per la loro generazione a scapito delle altre. Come? Aumentando i contributi sia direttamente sia indirettamente (ad esempio, destinando i vecchi assegni familiari al finanziamento delle pensioni) e poi introducendo nelle varie riforme parametri per i versamenti dei contributi, per i rendimenti,per laccumulazione del montante accumulato e per il calcolo delle spettanze tali da favorire coloro che sarebbero andati a riposo entro il 2013 (e anche più in là se si tiene conto,oltre che delle pensioni di reversibilità, del metodo di calcolo ‘misto’, in parte ‘contributivo’ e in parte ‘retributivo’, per coloro che avevano meno di 18 anni di anzianità al 31 dicembre 1995).
In breve,esigenze effettive e obiettivi particolaristici hanno prevalso sui principi di equità intergenerazionale.Sarebbe errato attribuirne la responsabilità solamente al governo Lamberto Dini o al ministro del Lavoro Tiziano Treu,gli autori delle riforme più significative:verosimilmente, non avrebbero ottenuto molto di più dal Parlamento e un even¬tuale ripudio, anche parziale, degli impegni con chi era già in pensione avrebbe scatenato una crisi sociale interna con possibili ripercussioni in¬ternazionali.
Ma torniamo al raffronto tra Svezia e Italia, utile per capire il senso del tradimento generazionale.Se, prima delle riforme, nel Paese scandinavo il ‘tasso di sostituzione’ tra lultimo stipendio e la pensione era del 60% e in Italia dell80%,nel nostro Paese la strategia individuata per far quadrare i conti è stata quella di far pagare di più ai giovani lavoratori oggi e dare loro di meno domani.Le stime su quale sarà in futuro il ‘tasso di sostituzione’ con lNdc ‘allitaliana’,variano di molto anche perché i tempi e i modi di ingresso nel mercato del lavoro e le progressioni di carriera sono mutati drasticamente, ma non sono affatto rosee. Un giovane che incomincia a lavorare come co.co.pro a 25 anni, che ottiene un impiego a tempo indeterminato a 30 anni, che non ha significative interruzioni occupazionali e va in quiescenza a 67 anni, potrà contare su un ‘tasso di sostituzione’ tra il 40% e il 55% della retribuzione.
Al resto dovrebbero pensare i fondi pensione integrativi.Ma, invece di re¬golamentarli per averne pochi, robu¬sti e ben vigilati,in Italia ne abbiamo fatti nascere ben 700 (negli Stati Uni¬ti sono 900),in gran parte di dimen¬sioni lillipuziane e tali da rischiare di essere spazzati via alla prima crisi. È chiaro che, per dare maggiori certezze ai più giovani, un riequilibrio di¬venta necessario.
In Svezia la transizione al nuovo sistema è avvenuta in tre anni.Da noi è ancora in corso Negli anni 60 il nostro Paese si era dato un sistema pensionistico tra i più generosi al mondo: assegni elevati e possibilità di cumularli Nellattuale sistema i contributi versati da chi è al lavoro continuano a pagare i trattamenti di chi si è ritirato Ma in futuro si avrà molto meno.
Con le “riforme” hanno salvato solo i genitori
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