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Come sfruttare la fine del paradigma del rigore

Le autorità dell’Unione Europea hanno dato più tempo a Francia e Spagna per raggiungere l’«equilibrio strutturale di bilancio» e i pertinenti parametri. Può chiedere un trattamento analogo anche l’Italia e, in tal modo, risolvere vari nodi che frenano la crescita (rimborso dei debiti della pubblica amministrazione alle imprese, riduzione del cuneo fiscale, revisione dell’imposizione sugli immobili). Un libro, un breve saggio scientifico e un lungo articolo sulla stampa internazionale forniscono le munizioni. Il libro è This time is different: eight century of financial folly («Questa volta è differente: otto secoli di follia finanziaria») pubblicato nel 2009 da Carmen Reihart e Kenneth Rogoff presso la Princeton University Press per presentare in modo organico una serie di studi prodotti nell’arco di dieci anni. Il lavoro scientifico è Does high public debt consistently stifle economic growth? A critique of Reinhart and Rogoff («Gli alti debiti pubblici impediscono davvero la crescita? Una critica a Reihart e Rogoff» pubblicato poco tempo fa da Thomas Herndon, Micheal Ash, e Robert Pollin della Università del Massachussetts a Ahmerst. L’articolo è un lungo testo apparso sul New York Times del 27-28 aprile: una disputa accademica su questioni di lana caprina?
Il libro consolida quel «teorema di Reinhart e Rogoff» in base al quale se lo stock di debito pubblico supera il 90% del Pil, la crescita potenziale subisce un freno pari ad un punto percentuale del Pil. per l’Italia la cui crescita potenziale è stimata (a ragione della struttura demografica e produttiva) attorno all’1,3% del Pil, ciò vuol dire un drastico taglia-debito e anni rigore.
I tre di Ahmerst confutano questo teorema diventato la «dottrina dominante» di Fondo monetario e altri, ma soprattutto diventata elemento centrale di una lettera del 2011 di Olli Rehn, vice-presidente della Commissione europea, in cui si richiamavano i ministri economici e finanziari dell’eurozona (e dei cosiddetto «PIIGS in particolare) a osservarla.
Herndon, Ash e Pollin confutano il lavoro econometrico di Reihart e Rogoff sotto vari profili: il periodo utilizzato, le ponderazioni attribuite ai gruppi di Paesi inclusi nel campione, l’esclusione (dal campione) di Paesi (Australia, Canada, e Nuova Zelanda) che per diversi anni hanno coniugato alto debito ed alta crescita. Mediamente – affermano – con un debito leggermente superiore al 90% del Pil si cresce al 2,2% . Nella loro replica, Reinhart e Rogoff ammettono errori econometrici ma sottolineano che i Paesi ad alto debito sono spesso quelli in cui l’invecchiamento comporta aumenti delle spese sanitarie e previdenziale e, quindi, trasferimenti da risparmiatori a debitori: propongono non una drastica riduzione del debito, ma un aumento dell’inflazione e un «tetto» agli interessi (se fattibile).
In effetti, un’imposta sui titolari di obbligazioni pubbliche. Se il «teorema» e la relativa «dottrina dominante» non convincono più chi li ha formulati perché insistere su una lettura del Fiscal Compact (la lettera di Rehn del 2011) basata su di essi? Tanto più che il disagio sociale sta aumentando pericolosamente non solo a Cipro, e in Grecia, Portogallo e Spagna ma anche in Francia ed Italia.
In una «chiavetta» Usb, Letta ha una serie di diapositive discusse in un seminario al Tesoro il 23 aprile: mostrano un quadro più inquietante di quelli apparsi nei dati e Bankitalia. C’è spazio per virare. Il dibattito tecnico incide anche sull’arcigno servizio studi della Bce, dal cui sito da una settimana si scarica il paper «Fiscal Composition and Long-Term Growth» Ecb Occasional Paper No. 1518 di Antonio Afonso dell’Università Tecnica di Lisbona.

Fonte: Avvenire del 5 maggio 2013

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