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Come l’Italia inventò (e butto) il computer

Quando Olivetti inventò il pc”, un d o c u m e n t a r i o che vorremmo tutti vedessero, non fosse che per riflettere sul patrimonio di genialità ma anche sugli abissi d’insipienza che la nostra Italia si porta dentro. La storia che Sky ci ha raccontato – a cura di Alessandro Bernard e Paolo Ceretto – svela a spettatori certamente ignari come il primo personal computer, la macchina più innovativa della nostra epoca che rivoluzionerà l’agire dell’umanità intera e da cui scaturiranno fino ad oggi infinite evoluzioni, venne ideato, progettato, disegnatoe materialmente fabbricato in un capannone di Ivrea da un gruppetto di fantasiosi ingegneri italiani, tecnici della nuova scienza. Con loro non più di 400 fra designer, economisti, esperti di materiali, operaie tecnici altamente specializzati, animati dal figlio di Adriano, Roberto Olivetti, (di cui nel documentario purtroppo si parla troppo poco, come si tace sul geniale capo progetto, Mario Tchou, un cinese nato a Roma, morto in un incidente d’auto dopo l’avvio dell’impresa). Alle loro spalle, nume tutelare di riferimento, Enrico Fermi, che credette fin dall’inizio nella possibilità di trasformare i mastodontici calcolatori elettronici, bisognosi per l’uso di addetti informatici in camice bianco, in oggetti portatili a disposizione di ogni tipo di consumatore. Un sogno impossibile, dicevano i più o, al massimo, un progetto destinato a restare allo stadio del prototipo avveniristico. Gli unici a crederci eravamo un gruppetto di amici di Roberto Olivetti, incantati dalla sua fantasia progettuale.
Il documentario scandisce le fasi del passaggio dall’utopia alla scienza applicata attraverso l’esperienza di un gruppetto di avanguardia guidato dall’inventore della scheda magnetica, precursora del floppy disk, ingegner Pier Giorgio Perotto, con i suoi più diretti collaboratori (Gastone Garziera, De Sandre, Faggin, inventore del microprocessore, l’architetto Mario Bellini che disegnerà la macchina). L’ultima fase di questa epopea tecnologica viene svolta in semi clandestinità. Quando, morto Adriano Olivetti, la società si trova in difficoltà, il gruppo d’intervento dei big dell’industriae delle banche, con alla testa Cuccia e Valletta. pongono, infatti, come condizione che la divisione elettronica venga venduta agli americani. Nessuno di loro capisce nulla di computer e Valletta afferma: “È stato un grande errore imbarcarsi in qualcosa di impossibile per gli europei. Del resto se nessuno ha costruito una macchina simile vuol dire che non serve a niente”. L’ordine viene eseguito, ma Roberto ha un colpo di furberia. Dichiara che la Programma 101 non è un computer ma una piccola calcolatrice e la sottrae alla svendita. Il gruppetto dei “congiurati” seguitaa lavorare in un capannone coi vetri oscurati per non farsi scoprire. Col fiato alla gola arrivano a costruirla in tempo per l’esposizione mondiale di New York del 1965. Gli espositori della Olivetti la relegano in una stanzetta puntando tutto sulle calcolatrici elettromeccaniche.
Fino a quando l’entusiasmo dei visitatori, che all’inizio non credono al miracoloe cercano invano i fili a cui il computer sia collegato, non li travolge e sono costretti a mettere la Programma 101 al centro del padiglione. Se ne vendono subito 40.000 esemplari. Ma la battaglia non è vinta.
L’americana Hewlett Packard la copia moltiplicandone le potenzialità. Accusata di plagio sborsa 900.000 dollari per acquisire tutti i brevetti. Fatto fuori Roberto, i nuovi dirigenti di Ivrea sono ben lieti di liberarsi di questa eredità. A loro scusante vi è il fatto che la meccanica era ancora vincente sul mercato e la cultura elettronica non era neppure percepita da quella cultura industriale che non andrà al di là del ” piccolo è bello” della futura Padania. I pionieri di Ivrea, colpevoli di aver capito tutto 15 anni prima di Bill Gates e che ogni paese avrebbe glorificato, furono sconfitti e irrisi in vita e dimenticati dopo la loro scomparsa.

Fonte: Repubblica 11 luglio 2011

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