• martedì , 10 Dicembre 2024

Bernabè e il nodo della banda larga

C’è da essere grati a Franco Bernabè, che dopo un assordante silenzio si è finalmente deciso a declinare le sue intenzioni circa il piano nazionale di trasformazione del sistema italiano di telecomunicazioni dalla tradizionale, vecchia rete in rame, con qualche timida presenza nell’adsl, alla moderna banda larga in fibra ottica. Peccato che l’amministratore delegato di Telecom ci abbia messo così tanto per poi partorire un vero e proprio topolino. Da un lato, infatti, dichiara di voler assicurare la copertura in banda ultra-larga (almeno 100 megabit) al 50% della popolazione italiana entro il 2018 – e peraltro lo dice all’Agcom, cioè in una sede impegnativa – ma dall’altro lato annuncia di volerlo fare da solo, senza alcuna alleanza con gli altri attori del mercato, nonostante che i conti dell’ex monopolista non glielo consentano. Tanto è vero che mentre sciorina la sua (presunta) strategia sulle reti di nuova generazione nello stesso tempo dichiara che l’attuale rete in rame “durerà ancora per tantissimi anni” e taglia i piani aziendali a breve (da oggi al 2012) di copertura del territorio in fibra, sia come numero di località, che di centrali pianificate che di unità immobiliari coinvolte. Rispetto a quanto preannunciato non più tardi del 18 dicembre 2009, Bernabè al 9 giugno ha quasi dimezzato gli impegni, preferendo – o dovendo, perché il debito ancora pesa sulle spalle di Telecom come e più di prima – continuare a lucrare la rendita di posizione derivante dal vecchio rame, resa ancora più redditizia dal fatto che Telecom investe sempre meno nella sua manutenzione (e si vede). D’altra parte, nel piano industriale presentato nell’aprile scorso, Bernabè aveva indicato in 12 miliardi, di cui 9 in Italia, gli investimenti complessivi (fisso e mobile) del gruppo nel triennio 2010-2012 mentre nei tre anni precedenti erano stati stanziati (ma sarebbe interessante sapere se sono stati spesi tutti) oltre 15 miliardi.
Come si vede, i casi sono due: o Telecom non è intenzionata a investire seriamente nella fibra ottica, e allora non è però accettabile che di fronte all’autorità di controllo delle telecomunicazioni dica il contrario; oppure lo vuole fare ma è frenata dalle sue condizioni finanziarie, e allora non si capisce perché dovrebbe con spocchia snobbare la possibilità di fare alleanza con Vodafone, Wind e Fastweb (e ora forse anche Tiscali), che pur essendo ferocemente concorrenti tra loro hanno trovato nell’idea di costituire una nuova società per realizzare un’infrastruttura “fiber to the home” – che con un investimento di 2,5 miliardi potrebbe coprire in cinque anni 15 città per un totale di 10 milioni di utenti – un virtuoso momento d’intesa. Perché è evidente che mettersi insieme – l’idea sarebbe una newco con un terzo alla Cassa depositi e prestiti e i due terzi da dividersi tra i diversi player – riduce per tutti la dimensione degli investimenti e fornisce al governo e al controllore pubblico la garanzia di un equilibrio tra gli interessi dell’incumbent e quelli degli outsider. Ma a questa domanda Bernabè dovrebbe rispondere rivolgendosi al governo e alla sua maggioranza, che nelle persone di Letta, Romani e Valducci ufficialmente, e in quella di Berlusconi ufficiosamente, hanno preso una posizione netta a favore del piano condiviso di trasformazione delle nostre tlc in banda ultra-larga. E poi anche ai suoi azionisti, specie se tutti – e ci sono ragioni per crederlo – la pensano come Passera si è espresso sul WSJ.

Fonte: Il Messaggero del 13 giugno 2010

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