• venerdì , 29 Marzo 2024

La malafede politica

di Giuliano Cazzola

Dovrebbe essere posto un limite alla malafede, anche in politica. Visto che non sarebbe possibile censurare per disonestà intellettuale i “politici”, toccherebbe alla libera informazione fornire all’opinione pubblica una valutazione oggettiva della situazione: spiegare, in modo asettico, come stanno davvero le cose, senza farsi coinvolgere dalla polemica, sarebbe il solo modo corretto per smascherare le fake news. La tecnica dei seminatori di zizzania è semplice: si avvalgono della ricetta sperimentata, a suo tempo con successo, da Joseph Goebbels: “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”. E’ sufficiente, cioè, instillare nell’opinione pubblica la convinzione che l’applicazione nella realtà di un provvedimento legislativo, per esempio, produca effetti negativi, in ragione della presenza di elementi di merito sui quali si sia incentrata, da tempo, una polemica intrisa di luoghi comuni (c’è l’invasione degli africani, si pagano troppe tasse, i pensionati sono poveri, i giovani non trovano lavoro, ecc.) che pur basandosi su dati di fatto, vengono elevati a situazione di carattere generale, assodata come tale, da non mettere in discussione, ma da accettare come verità.

Poche volte, durante una vita che sta diventando sempre più lunga e faticosa, chi scrive si è imbattuto con episodi di malafede, tanto conclamati, al pari di quelli che riguardano la polemica politica sulla manovra di bilancio per il 2020 e che rimbalzano, sic et simpliciter, nei talk show e sui quotidiani. Certo, la manovra (decreto fiscale e ddl di bilancio) è quella che è: criticarla è come sparare sulla Croce Rossa. Eppure, in tanti ci provano gusto. I più sofisticati accusano il “pacchetto” di “non avere un’anima”, senza rendersi conto che una condizione siffatta è molto più rassicurante, per noi tutti, che averne una in peccato mortale, come quella del governo giallo-verde, il quale – ha affermato Carlo Bonomi nella relazione svolta all’Assemblea di Assolombarda – “ci ha promesso di cancellare la povertà, invece ci ha restituito alla stagnazione”.

Poi, arrivano quelli che lamentano la mancanza di misure per lo sviluppo, come se, avendo imposto al governo di destinare 23 miliardi (su 30 miliardi) alla c.d. sterilizzazione dell’Iva (che è poi solo un rinvio di una inevitabile revisione delle aliquote, tanto che nella manovra sono sterilizzati, in anticipo, anche 10 miliardi del 2021), vi fosse spazio per maggiori investimenti o per un intervento più robusto (di quello previsto) sul costo del lavoro. Magari, gli “sviluppisti” non si sono accorti che il governo Conte 2, intrappolato nelle sue contraddizioni interne, si è affidato, riconfermandole, alle stesse misure (quota 100 e dintorni e RdC) che secondo la maggioranza giallo-verde avrebbero dovuto incrementare la domanda interna e favorire l’occupazione attraverso il turn over anziani/giovani. Poi, per i palati meno fini, i critici accusano il governo di una manovra che, attraverso le tasse, violenterà gli italiani nel portafoglio (ossia in ciò che hanno di più caro), metterà in crisi settori importanti dell’industria e dei servizi. Talvolta, quando parlano di “stangata fiscale”, costoro sembrano fare confusione tra i tentativi di recuperare l’evasione di imposte già vigenti e l’intenzione di introdurne delle nuove.

Matteo Salvini tuona nelle piazze contro le manette agli evasori, dimenticando che era proprio lui ad evocarle, allo scopo di far accettare all’opinione pubblica quel condono denominato “pace fiscale”. Nessuno nega che certe misure di carattere tributario contenute nella manovra, con un vago riferimento alle mode ambientaliste, siano la conseguenza più della disperazione che dell’autorevolezza dell’attuale governo, contrastato all’esterno da un’opposizione che si alimenta della disonestà delle proprie denunce e minato all’interno da “quinte colonne” che cercano visibilità per crescere nei sondaggi o per non sparire del tutto. Nel redigere (salvo intese) i testi della manovra, il ministro Roberto Gualtieri è parso spesso come quel topolino dell’esperimento che, ovunque si accosta, avverte una scossa elettrica (nel suo caso un “questo non si tocca”).

Ovviamente, un governo e una maggioranza non sono giustificati per la loro confusione e debolezza. Ma le critiche alle politiche fiscali del Conte 2 non si rivolgono alla loro scadente qualità, bensì alla loro quantità, al loro peso sul reddito degli italiani. In questi giorni abbiamo scoperto non solo che le bevande zuccherate costituiscono un genere di prima necessità, ma che l’uso promiscuo dell’auto aziendale è parte integrante dei nuovi diritti dei lavoratori; ragione per cui una revisione del regime fiscale sarebbe grave ed inaccettabile, anche nella forma zigzagante individuata da Gualtieri (il quale si è impegnato, comunque, a discuterne per trovare una soluzione). In un talk show, chi scrive ha udito con le sue orecchie il direttore di un quotidiano denunciare con forza questo abuso fortemente lesivo della condizione dei lavoratori che potrebbero essere costretti, dalle limitazioni imposte al benefit, ad acquistare un’auto o ad usare la propria. In un’altra trasmissione è stato intervistato un signore con un reddito superiore a 100mila euro che lamentava il proposito annunciato dal governo di non consentire, se non in parte, la deducibilità delle spese sanitarie (il fatto che ai pensionati percettori di quel reddito e oltre sia stato imposto sull’assegno un taglio importante per 5 anni non ha impressionato nessuno).

E che dire delle solidarietà con i fumatori, anch’essi colpiti dalla mannaia fiscale del governo? Smoke get in your eyes, cantava confidenzialmente Nat King Cole. Poi c’è la questione dell’aumento di soli tre euro ai pensionati. E’ colpa del governo o dell’inflazione? Basterebbe spiegare che, nella manovra, si estende il 100% della copertura a quelli che, nel sistema di perequazione introdotto nella legge di bilancio per l’anno in corso, si vedevano applicare il 97%. E’, invece, più seria la questione della plastica perché coinvolge l’apparato produttivo. Il problema prioritario è chiarire il perimetro dell’intervento, al quale è attribuito, a regime, 1,8 miliardi di entrate, dal momento che alla fine la tassa sulla plastica che era 0,4 euro/kg è diventata di 1 euro/kg. Sarebbe un guaio se un onere siffatto si scaricasse su di un solo settore, senza compensazioni. In un’intervista a “Mezz’ora in più” il governatore dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini ha voluto mettere le mani avanti e lanciare un allarme: “Il 63% dell’intero fatturato italiano della produzione di plastica è in Emilia Romagna. In Regione stiamo discutendo per una delibera che introdurrà provvedimenti plastic free tra i più avanzati del paese. Ho sentito il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, tra pochi giorni sarà convocato un tavolo sulla plastica, e, a breve, verrà in Emilia Romagna. Ho chiesto di modificare la legge sulla plastic tax, di rimodularla”. In Emilia Romagna operano 228 aziende (oltre un terzo delle imprese italiane del settore), quasi 17mila addetti e un fatturato di 4,4 miliardi di euro pari al 61,9% del totale nazionale.

Sarebbe un clamoroso autogol di questa maggioranza innescare una crisi produttiva proprio nella regione che è divenuta la “linea del Piave” contro l’invasione salviniana. Per concludere, sarebbe il caso che qualcuno cominciasse a portare altri argomenti: questa manovra è gracile, con tanti aspetti discutibili, con sfide ardite (come una maggiore digitalizzazione dei pagamenti), ma non è quella effettiva. La manovra vera dell’attuale governo sta nel nuovo clima che si è creato con la Ue e con i mercati, nel conseguente dimezzamento dello spread che porterà un importante beneficio sui tassi di interesse (un risparmio – rebus sic stantibus – di 38 miliardi di euro in un triennio, come ha certificato su Huffpost Marco Leonardi consigliere del ministro Gualtieri). A tal proposito riportiamo – da un articolo di Stefano Cingolani su Il Foglio – una valutazione del Cerved: ” Rispetto al 2012, anno in cui i tassi di interesse avevano risentito degli spread dei titoli di Stato italiani rispetto a quelli tedeschi, le piccole medie imprese italiane pagano 5,1 miliardi in meno di oneri finanziari (- 41%) che incidono per 2,3 punti in termini di redditività”. Poi, bisognerà pur dare un valore alla cacciata del Capitano all’opposizione.

Fonte: da Il diario del lavoro del 4 novembre 2019

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