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Tremonti il cinese

A chi gli chiedeva che cosa stesse provocando l’impennata dello spread tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi Luca di Montezemolo, presidente della Ferrari con ambizioni politiche, già in luglio rispondeva: “Prima di tutto la totale mancanza di credibilità: è possibile che un presidente del Consiglio, da così tanto tempo al governo, non sia mai stato in Cina e in India?”. Se Silvio Berlusconi predilige la dacia di Vladimir Putin e, fino a qualche mese fa, le tende di Muammar Gheddafi, all’interno della maggioranza e dell’esecutivo, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e i suoi alleati della Lega Nord non hanno mai fatto granché per attirare sull’Italia la benevolenza della Cina. Le accuse si sono sprecate: copiano le nostre tecnologie, replicano i prodotti di design falsificando i marchi, ci fanno concorrenza con il dumping sociale cioè sfruttando la manodopera locale per avere costi più bassi. E ci portano via pure il lavoro qui in Italia con gli immigrati. Poi questa litania si è pian piano attenuata.
Fino alla nemesi delle ultime settimane. Quando prima il direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli si è recato a Pechino per convincere i cinesi a investire in titoli di Stato italiani. Poi lo stesso Tremonti ha ricevuto una delegazione guidata da Lou Jiwei, presidente della China investment company (Cic), il fondo sovrano controllato dal governo che impiega parte delle ricche riserve valutarie cinesi, per illustrargli quali opportunità offra oggi l’Italia a chi ha soldi da investire.
Certo, Tremonti e Grilli avevano ottimi motivi per trasformarsi in piazzisti non solo di Btp e Cct ma di tutto quanto offre l’Italia: azioni di grandi società, piccole e medie imprese, aziende municipalizzate, infrastrutture come strade e porti. Da un lato infatti la disaffezione verso i titoli di Stato italiani degli investitori istituzionali (fondi d’investimento, fondi pensione, hedge fund) soprattutto stranieri continua. Come dimostra l’andamento dello spread che sulla scadenza dei cinque anni ha toccato il record di 447 punti base martedì 13 settembre, quello dei Credit default swap (un derivato che assicura gli investitori contro il rischio Italia) arrivato a 522 punti quello stesso giorno, l’esito dell’asta per 6,5 miliardi di Btp a cinque anni che ha portato il rendimento (e quindi il costo per il Tesoro) al 5,6 per cento dal 4,93 dell’asta precedente. Dall’altro lato l’economia langue: nel terzo trimestre molto probabilmente il Prodotto interno lordo farà segnare una diminuzione, sia pur minima. E nel 2012 tutte le previsioni indicano una crescita inferiore all’1 per cento.
Serve dunque qualcuno che mostri fiducia nell’Italia. Investendo. O nei titoli di Stato per compensare la fuga dei gestori di denaro internazionali. O nell’economia reale, quella delle imprese e delle infrastrutture, per far vedere che le prospettive di lungo periodo sono buone e che nel tessuto produttivo italiano si possono tuttora trovare aziende con i fiocchi. Non sarebbe peraltro una novità per il governo Berlusconi che ha già aperto alla Libia, un altro Stato non proprio democratico, le porte di società “strategiche” come Eni, Finmeccanica e Unicredit. Del resto, dopo la Grande Crisi del 2008, gli unici ad avere soldi “veri” da investire sono i fondi sovrani degli Stati esportatori: perché farsi scrupoli? Ben vengano gli arabi, i cinesi,Singapore.
Sarebbe il modo migliore, se arrivassero davvero, per fermare l’ondata di paura che sta dirottando i risparmi degli italiani verso le cassette di sicurezza delle banche svizzere o gli immobili delle capitali europee. E per contrastare l’immagine dell’Italia come anello debole dell’euro che le incertezze dei leader europei e l’offensiva dei “falchi” tedeschi (le dimissioni di Jurgen Stark dalla Banca centrale europea a pochi mesi da quelle di Axel Weber dalla Bundesbank, la pressione degli olandesi e dei finlandesi) stanno accentuando. Con l’effetto che il sostegno della Bce si fa sempre più precario: solo gli acquisti di titoli di Stato italiani effettuati da Francoforte in coincidenza con l’annuncio della manovra correttiva approvata dal Parlamento hanno infatti impedito un avvitamento che avrebbe, di fatto, impedito al Tesoro di rifinanziarsi sul mercato. Ma è stato proprio Mario Draghi, l’italiano designato a presiedere la Bce dal prossimo novembre, a ricordare al governo che quel sostegno, concesso in una fase di emergenza, non si può dare per scontato. E che comunque non durerà in eterno.

Fonte: Espresso del 16 settembre 2011

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